Ero incerto se scrivere le due righe che in tanti (con tweet e post e dichiarazioni) dedicheranno alla data, oppure riprendere qui sopra con voi un sentiero meno rapido (e in parte scosceso) per comprendere meglio un pezzo di storia, della nostra storia. E ho pensato che tutto sommato è giusto farlo. Avviso, è un testo lungo, ma non poteva non esserlo. Fate voi.
La legge che ha istituito il Giorno del ricordo compie diciannove anni. Fu votata a fine marzo del 2004 con l’obiettivo di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
Dunque 10 febbraio, la scelta cadde su quella data nel rimando all’anno, era il 1947, che vide la firma sui trattati di pace di Parigi.
Doveva essere la fine, almeno nella forma, dei postumi della guerra sul confine dove il “dopoguerra” si predisponeva a farsi narrazione infinita. Quella data aveva sancito il passaggio alla Jugoslavia delle terre istriane, del Quarnero (o Quarnaro), di Zara e dunque di un’area fortemente contesa e sino a prima del secondo conflitto in larga misura italiana nell’ufficialità oltre che nello spirito.
Circa trecentomila persone, la quasi totalità della presenza italiana, e tra quelli cinquantamila sloveni e croati, furono spinti ad abbandonare case, campi, i luoghi della propria vita e di tradizioni familiari radicate. Lo fecero valendosi del diritto di opzione che il Trattato prevedeva con la possibilità di trasferirsi in Italia, molti lo fecero soprattutto a fronte delle pressioni e intimidazioni subite.
L’accoglienza della Madre patria fu tutt’altro che calorosa, anni di fatiche, disagi, diversi scelsero la via dell’emigrazione. Ci volle un decennio perché lo Stato intervenisse favorendo la piena integrazione dei profughi giuliano-dalmati nell’Italia del boom. Il che non bastò a sanare la “ferita della memoria” al punto che sulla pagina sanguinosa di quel confine a lungo calò il silenzio.
Pesarono interessi geopolitici, in fondo la Jugoslavia col suo profilo di “non allineata” era una zona cuscinetto tra questa parte d’Europa e il blocco sovietico, né mancavano scambi commerciali, il tutto nella logica di una buona stabilità da perpetuare anche in vista del “dopo Tito”. Insomma, lasciare che la polvere coprisse le pagine più dolorose e cruente rispondeva a parecchi interessi, nobili e non.
Tutto sommato quel mutismo complice accomunava il partito che governava da Roma, ma pure l’opposizione comunista che sulle scelte compiute nell’alto Adriatico non poteva dirsi mera spettatrice.
Il tutto, appunto, sino al 2004 e all’istituzione del Giorno del ricordo, pure in questo caso con una legge del contrappasso, nel senso che da allora non vi è stata una sola delle ricorrenze libera da toni accesi, talvolta infiammati, sulle radici di una celebrazione che avrebbe dovuto scavare e ricostruire il lungo conflitto tra opposte aspirazioni nazionali (di italiani, sloveni, croati delle più diverse appartenenze e ideologie), e che ha finito, invece, col sovrapporre la memoria dello scontro tra fascismo e antifascismo.
Ma si può riflettere su una celebrazione entrata nel calendario civile del Paese con un di più di rigore e lucidità?
Direi che farlo si deve, o almeno conviene, e per riuscirci Raoul Pupo, storico triestino, tra i principali studiosi della frontiera di lassù, diventa una bussola preziosa.
Sfogliando la sua ultima ricognizione del tema (Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza, Laterza 2021) ha senso partire dalla citazione in apertura, e non perché di rara eleganza in sé, ma per il suo riflesso di verità, è di Predrag Matvejevič: “L’Atlantico e il Pacifico sono i mari delle distanze, il Mediterraneo è il mare della vicinanza, l’Adriatico è il mare dell’intimità”.
Già qui, volendo, una prima domanda si pone, e non di scarso peso: ci si può odiare nell’intimità? Possono generarsi sino a deflagrare conflitti di brutalità indescrivibile entro un perimetro che nei secoli ha visto combinarsi, letteralmente mescolarsi, lingue, dialetti, religioni, costumi, identità?
Ahinoi, sì. La risposta per chi voglia addentrarsi nella parabola di quelle terre (ma la riflessione potrebbe estendersi sino e oltre i Balcani) è che quell’odiarsi senz’argini possa farsi cronaca e storia. Tragedia nella tragedia verrebbe da dire, il che suggerisce, anzi impone, di risalire il sentiero del passato usando la cautela necessaria. Con una premessa, è complicato se non impossibile analizzare le violenze novecentesche in quel triangolo d’Europa se ci si rinchiude in una storia “nazionale”, che sia quella italiana o slovena o croata. Solamente considerando “punti di vista diversi” si possono svelare le dinamiche di un territorio plurale che nell’arco lunghissimo del “secolo breve” (non appaia un paradosso perché non lo è) ha convissuto con varie appartenenze, intese nel senso di Stati e governi diversi.
Se si assume questa base risulta più facile capire quanto complicata e lacerante possa risultare la ricerca di una memoria condivisa al punto da ritenerla tuttora meta impossibile. L’altro corno del problema è rappresentato dalle parole o formule utilizzate.
Anche su questo Raoul Pupo fissa un glossario utile a scansare errori di comprensione. A cavallo del confine orientale, prima, durante e dopo la guerra non vi sono state pagine di deportazione, espulsione o, peggio, “pulizia etnica”, termine per altro generato dagli eventi di un tempo storico successivo e sul quale molto si è dibattuto.
La definizione che appare più corretta è un’altra, lì si sono prodotti veri e propri “fenomeni di sostituzione nazionale”, il che non paia una reductio della portata di quei fatti, fosse solo perché è stata una delle strategie applicate in angoli diversi del continente su come “accomodare” persone con appartenenze nazionali diverse in un unico Stato.
Nel caso in questione, significa che dapprima il fascismo determinò l’allontanamento di molte migliaia di cittadini sloveni e croati dalle regioni italiane, successivamente furono gli accordi di pace a indurre l’Esodo dall’Istria di molte migliaia di cittadini italiani costretti a lasciare case e beni tra gli anni ’40 e ’50.
Detto ciò, perché all’incrocio delle due guerre mondiali, e prima e dopo quelle tragedie, la Venezia Giulia ha vissuto un di più di violenza consumata dalle varie parti?
La risposta è in un’altra formula: “nella lotta politica può sempre esserci spazio per i compromessi, in quella nazionale no”. Il nazionalismo, dunque, finisce con l’essere il migliore concime per disseminare odi e contese destinati prima o poi a deflagrare. E così puntualmente è avvenuto.
Un passo indietro, ma rapidissimo, è necessario. A ridosso della Grande Guerra e prima del fascismo Trieste faceva convivere una media borghesia dalle tendenze irredentiste, un proletariato “internazionalista” e un terzo ceppo di popolazione fedele all’Austria Felix (Viva l’A e po’ bon, rimarrà moto popolare dove la A stava proprio per l’Impero decadente).
All’indomani della guerra sarebbe stato il trattato di Rapallo, novembre 1920, a disegnare i confini tra Italia e Jugoslavia, anche se quattro anni più tardi avrebbe provveduto quello di Roma ad annettere lo Stato Libero di Fiume, previsto sulla carta e impedito nel nascere dall’avvento di Mussolini.
Sono anni tormentati, turbolenti è dir poco, dove il regime fascista con la sua rete di servizi individua nel partito socialista l’avversario da stroncare per il sospetto di essere il collante tra slavi e nostalgici del patronato viennese.
In breve tempo su entrambi i fronti si crea l’humus perfetto per il primato delle componenti massimaliste e violente, lo squadrismo nazionalista ha apparecchiato il tavolo e non mancherà di sedervisi con un anno d’anticipo rispetto alle ronde fasciste.
In quel contesto s’inserisce la parabola fiumana di D’Annunzio, ma su quella si sono riempiti gli scaffali, qui basterà ricordare il pogrom anti-croato di cittadini e legionari sedato dal Vate con l’argomento di “eccessi spiegabili in un primo impeto di passione”, ma non giustificabili nella loro sistematicità (quando si dice uno spirito moderato!).
Sarà il 13 luglio 1920, però, la data discrimine, quando si consuma l’assalto delle squadre fasciste e l’incendio dell’Hotel Balkan (il Narodni Dom, sede di organizzazioni e istituzioni slave a Trieste, vuol dire slovene, croate, serbe…). È l’avvio di un altro pogrom, stavolta anti-sloveno, che Boris Pahor descriverà in chiave letteraria nella novella “Il rogo nel porto”, le camicie nere vivono le spedizioni punitive contro banche, giornali, associazioni come “spettacolo di redenzione”, gli sloveni si trovano catapultati nell’incubo che si prolungherà per il quarto di secolo a seguire.
Trattando di memoria per loro quella data rimarrà impressa, scolpirà il “trauma originario” della comunità nel suo legame con lo Stato italiano.
Ora, che la storia di territori plurali sia complicata può confermarlo il fatto che solo un anno e mezzo prima dell’incendio del Balkan, nel gennaio del 1919 erano state formazioni slovene guidate da Rudolf Maister a sparare sui manifestanti tedeschi che nella piazza di Maribor rivendicavano l’annessione alla nuova Austria.
Tornando alla Trieste del 1920, gli episodi di violenza proseguirono nel tempo sotto lo sguardo indulgente delle forze dell’ordine, in fondo lo squadrismo era un aiuto collaterale contro il pericolo dell’eversione bolscevica. La benevolenza dell’ordine costituito fece della Venezia Giulia una tra le regioni dove il fascismo agì con esiti più pesanti, solo in quella prima stagione 134 edifici incendiati, di questi un centinaio erano circoli di cultura, alcune case del popolo, oltre una ventina le Camere del lavoro e diverse cooperative.
In questa ricostruzione tra le date a merito di citazione un posto spetta all’aprile del 1927 quando il regime estende all’alto Adriatico le disposizioni già previste per il Tirolo meridionale, si tratta della “restituzione in forma italiana” dei cognomi deformati in passato dalle autorità austriache. È l’avvio di una “massiccia italianizzazione” condotta dagli uffici e, si noti il dettaglio, senza “consultare gli interessati”.
Poteva così capitare, e in effetti capitò, ai fratelli Vodopivec, uno residente nel capoluogo, l’altro a Monfalcone di trovarsi battezzati rispettivamente Bevilacqua (traduzione letterale del cognome sloveno) e Vodini. Diciamo che il tentativo in apparenza più folle, sradicare l’identità di un popolo o parte di esso, avanzò lungo il doppio binario di una progressiva assimilazione delle anime mai del tutto scollegata da una dose di violenza sui corpi.
Il fascismo fu questo (e al diavolo chi rivendica che “fece anche cose buone”!). Tra le vittime privilegiate di quella stagione repressiva moltissimi cattolici, compresi preti, parroci, vescovi, e naturalmente l’insorgere e l’esplosione dell’antisemitismo in una città, parliamo di Trieste, ricca di una comunità ebraica radicata e tra le più importanti.
La durezza del regime a organico pieno (pubblica sicurezza, carabinieri, Milizia) costituì nei fatti uno stato di polizia dove violenze, incarcerazioni, schede segnaletiche sorressero un apparato repressivo feroce quanto efficace.
Il fronte sloveno, per altro, non risultò compatto, nell’isontino avrebbe conosciuto persino una formazione fascista (Vladna stranka, Partito governativo) dedita a relazioni con l’Ovra (la polizia segreta del fascismo). Non vi è dubbio però che gran parte degli sloveni si oppose al fascismo e la conferma viene dai movimenti di resistenza armata, tra questi spicca l’acronimo goriziano del Tigr (acronimo per Trieste, Istria, Gorizia, Rijeka). Assieme a Borba (la versione triestina) stabilirono presto collegamenti con i servizi jugoslavi per lo scambio di armi e materiale di propaganda. In particolare un ordigno venne fatto esplodere il 10 febbraio del 1930 (le date a volte ci inseguono) presso “Il Popolo di Trieste”, quotidiano fascista, uccidendo un redattore. All’attentato seguirono centinaia di arresti e ottantasette tra questi furono deferiti al Tribunale speciale che dopo un processo farsa comminò quattro condanne a morte. Uno dei quattro, Ferdo Bidovec, era di madre italiana, come per altro slovena era la madre di Guglielmo Oberdan a conferma che “per i patrioti di frontiera il sangue non conta un bel nulla”. I quattro vennero fucilati all’alba del 6 settembre 1930 presso il poligono di Basovizza in un luogo destinato a divenire dall’immediato dopoguerra “un sacrario” dell’antifascismo sloveno.
A metà luglio di tre anni fa il presidente Mattarella e il suo omologo sloveno, Borut Pahor, si sono raccolti mano nella mano dinanzi alla lapide che ricorda le vittime e lo hanno fatto, segno esplicito di una volontà di pacificazione, subito dopo avere reso omaggio alla più nota foiba di Basovizza, perché nel tracciare la rotta di questo Giorno del ricordo è naturalmente a quella pagina che dobbiamo arrivare, anche se farlo senza percorrere scorciatoie può aiutare a capire.
E in questa storia, lo si sarà inteso, per capire bisogna soprattutto conoscere.
La seconda guerra mondiale scompose una volta di più assetti, etnie, comunità. L’offensiva tedesca sulla Jugoslavia scattò il 6 aprile 1941, Mussolini vi si accodò in una pagina tra le più cruente per le conseguenze.
Croazia, Slovenia, Bosnia, Montenegro o Voivodina non sarebbero mai state regioni controllate, tanto meno pacificate. Gli ustaša, nazionalisti fanatici, avrebbero avviato la persecuzione di due milioni di serbi residenti nel nuovo stato croato perseguendo al contempo il genocidio di ebrei e rom, solo nel campo di sterminio di Jasenovac a trovare la morte furono in centomila.
Sul fronte opposto, dopo l’attacco di Hitler all’Unione Sovietica, siamo a giugno del ’41, i comunisti guidati da Josip Broz detto Tito animarono la resistenza anti tedesca, lo fecero agendo in autonomia, fuori dalla raccomandazione di Stalin per la creazione di larghi fronti antifascisti.
Dal canto loro i serbi, distribuiti tra il Protettorato di Serbia occupato dai nazisti, lo Stato croato, la Dalmazia e il Montenegro dove di stanza stavano gli italiani, diedero vita a un movimento unitario, i četnici, “monarchici e sostenitori di un progetto ‘grande serbo’” ovviamente in conflitto con gli ustaša, “militanti dell’idea ‘grande croata’ in una piena logica di guerra civile”.
I partigiani combattevano entrambe le fazioni, četnici e ustaša oltre agli occupanti italiani e tedeschi. Tra il ’41 e il ’43 le azioni repressive italiane contro le formazioni partigiane non esitarono a reprimere quantità di civili, non furono “danni collaterali”, ma una strategia mirata a isolare qualunque focolaio di resistenza.
Internamenti di massa a scopo di prevenzione condussero a costruire campi in grado di concentrare migliaia di persone, accadde a Gonars in Friuli o nell’isola di Arbe/Rab in Dalmazia.
Cenni, solamente cenni, ma servono a dar conto della portata e profondità di un conflitto che sfocerà nella pagina ultima, quella che ci riconduce al tema del “Ricordo” e della giornata a suo tributo.
Procediamo, però, sul sentiero imboccato: 8 settembre 1943, anche la Venezia Giulia conosce la sorte del resto del paese, comandi militari e truppe allo sbando. Il vuoto di potere è immediato con i tedeschi impossibilitati a riempirlo nel breve. L’Istria piomba nel caos coi soldati italiani in fuga. La rete dei Comitati popolari di liberazione (Cpl) prende in mano le redini, a settembre proclama la volontà dell’Istria di annettersi alla Croazia e, per suo tramite, alla “fraterna comunità dei popoli della Jugoslavia”.
La contro-repressione non è meno violenta e spesso sfugge al controllo delle stesse autorità partigiane con atti di sadismo e di violenza cieca. Nelle campagne attorno a Parenzo si consuma “una vera e propria jacquerie” coi contadini croati contro archivi comunali, simbolo di uno Stato oppressore, e vendette consumate sui loro vecchi “padroni”.
L’uccisione di Norma Cossetto, studentessa istriana seviziata e infoibata nell’autunno del ’43, resta una delle pagine atroci di quella stagione.
Foibe dunque, in terra istriana ve ne sono diverse usate allo scopo, da quella di Vines verranno recuperate oltre ottanta salme. Il computo complessivo delle vittime non può che risultare impreciso, la storiografia lo quantifica attorno al mezzo migliaio, “un eccidio di grandi dimensioni paragonabile per eccesso alle più note stragi naziste in Italia”.
Resta la frattura, l’evento in sé, destinato in corrispondenza al ritrovamento dei corpi a trasformare rapidamente il fatto oggettivo e tragico in un “costrutto mitico che diviene parte integrante dell’identità collettiva degli italiani d’Istria”.
I semi di una narrazione contesa proiettata in tutto il dopoguerra tra “opposte retoriche, vittimiste e negazioniste” sono interrati e germoglieranno una malapianta.
La tesi estrema è netta: le foibe sono “la prima tappa di un disegno di eliminazione violenta della presenza italiana nella penisola, destinata a divenire parte integrante della Jugoslavia comunista”.
Sappiamo oggi che non era così e che il punto stava di nuovo nella volontà di una “sostituzione nazionale”, concetto distinto e diverso dall’abominio di un genocidio. Ciò non toglie che alla fine della mattanza in quel lembo del continente tra infoibati e uccisi dai nazisti non vi era famiglia che non piangesse un lutto.
Resta il dato storico di un secolo, il ‘900, angoscioso e terribile se si pensa a governi diversi per ideologia e impianto politico accomunati dalla volontà di creare Stati etnicamente omogenei.
E Trieste?
A Trieste il comando passa in mano tedesca, con le province a ridosso delle Alpi orientali (Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Lubiana) accorpate nella Zona di operazioni litorale (Ozak) dove “la sovranità italiana è puramente nominale”.
Siamo nella parte finale della guerra e il governo di Salò non ha alcun potere su sindaci, prefetti, legislazione. Nel capoluogo giuliano l’imprenditoria si presta a collaborare anche in difesa dei propri interessi finanziari e assicurativi. Nonostante nell’agosto del ’44 il vertice italiano del PCd’I e buona parte del gruppo dirigente complessivo vengano arrestati ed eliminati, nei mesi successivi la resistenza partigiana si organizza tra le brigate Garibaldi, comuniste, e quelle Osoppo, azioniste e cattoliche.
Le violenze sono ancora una volta terribili. Nel mese di aprile, siamo sempre nel ’44, i tedeschi compiono una rappresaglia nel villaggio di Lipa, in provincia di Fiume. Una colonna scortata da ufficiali italiani entra in paese e uccide chiunque incontri, sono per lo più donne, anziani, tre bambine hanno meno di un anno, alla fine le vittime saranno 280.
Nello stesso mese a Opicina, sul Carso triestino, i partigiani uccidono sette militari in un cinema che proietta documentari di propaganda, un secondo attentato nel cuore di Trieste produce altre cinque vittime tedesche.
La rappresaglia si consuma nello schema classico del 10 a 1. Settantuno ostaggi sono fucilati dopo l’attentato di Opicina, cinquantuno per quello consumato in città con i corpi appesi a monito della popolazione nell’androne di quello che sarà il conservatorio di musica.
Ma il peggio non è neppure lì, dall’ottobre del ’43 all’aprile del 1945 opera a Trieste il Polizeihaftlager (Campo di detenzione di polizia), la famigerata Risiera di San Sabba, luogo destinato a divenire ben altro che una prigione.
Gestito da SS tedesche, austriache e ucraine annovera “specialisti” del ramo, carnefici nazisti responsabili di buona parte della Shoah della Polonia, Christian Wirth, detto “il selvaggio” o Kurt Franz, “il più sadico torturatore di Treblinka” e Odilo Globočnik a cui si ascrivono almeno un milione e mezzo di morti. Circa settecento ebrei triestini passeranno da quelle celle (oggi monumento nazionale), se ne salverà una ventina.
Ma è sul dopoguerra che Trieste proietta la sua ombra, e lo fa ben prima che la guerra consumi le sue ultime brutalità. Il nuovo vertice del PCd’I passato in mano alla componente slovena del partito lascia agli jugoslavi la possibilità di occupare le aree di frontiera (siamo nell’ottobre del ’44), quest’ultimi dal canto loro “si impegnano a trattare gli italiani come una minoranza nazionale col massimo dei diritti”. Soluzione ambigua in sé.
Nel frattempo le divisioni tra le formazioni partigiane si consumano come nell’episodio eclatante della strage alla malga di Porzȗs, febbraio 1945, quando un reparto garibaldino stermina una brigata Osoppo. Il punto è che le logiche della guerra “non scompaiono dall’oggi al domani ma permeano le settimane e i mesi della transizione”.
Il Primo maggio del 1945 i partigiani jugoslavi occupano Trieste, a guidare l’operazione i vertici dell’Ozna, la polizia segreta di Tito. La tecnica che usano non è quella dei rastrellamenti di massa, prelevano singoli o piccoli gruppi anche se l’ampiezza delle operazioni non sfugge a nessuno.
Ancora Raoul Pupo descrive i numeri, tra Gorizia e Trieste gli arrestati sono tra i dieci e i dodicimila, non tutti saranno uccisi, ma questo lo si verrà a sapere solo in seguito. L’indicazione è arrestare repubblichini, fascisti, četnici, squadristi e spie, collaborazionisti, agenti della questura e dell’Ovra, membri della X Mas, delatori di partigiani, un lungo elenco.
Non servono accuse provate, basta un sospetto, l’esito è una sequenza di uccisioni in molti casi senza alcuna imputazione e tantomeno colpa. Volendo semplificare, “chi porta le armi o ne risponde ai comandi jugoslavi oppure è un nemico, a prescindere dall’uso che ne abbia fatto assieme o contro i tedeschi. Anzi, se contro i tedeschi si è battuto, ma non si è posto agli ordini dell’armata jugoslava, è ancor peggio di un nemico, è un fomentatore di guerra civile”. Il che spiega i motivi che condussero a morte finendo infoibati anche militanti della resistenza triestina, per altro segnata dalla frattura dell’ala comunista a quel punto appiattita su posizioni filo jugoslave.
Sono settimane tragiche, il giudizio storico dice come non si consumò una caccia indiscriminata all’italiano poiché in quel caso le vittime sarebbero state decine di migliaia e non tra le quattro e le seimila, numero terribile egualmente si capisce. Ma appunto non di un genocidio o di una “pulizia etnica” si trattò. Fu altro. Una orribile coda di una guerra che aveva una parabola dietro a sé.
Una resa dei conti venata dell’odio nazionalista? Certo, fu anche questo, ma quando ci si muove su una terra di frontiera le risposte non sono mai lineari e questo vale cento volte di più quando si tendono a trasformare episodi cruenti in “miti” di parte, perché il pericolo è smarrire la complessità della trama che quelle storie sorreggono.
L’Esodo dall’Istria e Dalmazia, ciò che il 10 febbraio ogni anno ricorda, è l’ultimo capitolo di questa lunga, tormentata storia.
Per anni su quella pagina è calato il silenzio. Le cause? Molte, e non sempre coincidono con la vulgata. Si è preferito tacere, rimuovere. In parte perché quelle donne e uomini sradicati dai luoghi di una vita, da case, campi, vigne, cortili, arrivarono nell’Italia che si affacciava al boom economico e una storia di soprusi e violenze secondo alcuni stonava col clima del tempo. In parte per una lotta politica che ancora contrapponeva campi ideologici e, nonostante la scomunica sovietica, il marchio della destra su quella tragedia non tardò a farsi sentire.
L’Esodo fu dramma vero, strappo o ferita non ricucibile. Con gli anni i passi nella direzione di una pacificazione si sono compiuti. Per il poco che vale mi recai per la prima volta, da segretario dei giovani comunisti e con una delegazione del Pci-Kpi, a deporre un mazzo di fiori sulla Foiba di Basovizza. Correva l’anno 1989.
Più tardi atti e gesti ben più autorevoli sono seguiti, dalla visita già ricordata di Sergio Mattarella e Borut Pahor all’incontro del 2010 quando i presidenti Napolitano, Turk e Josipovic (Italia, Slovenia, Croazia) resero omaggio al Narodni dom e al Monumento all’esodo istriano-dalmata.
Ciò che mi premeva rammentare in questa giornata è il bisogno di non cancellare il passato perché farlo equivale a gettare le basi a che possa ripetersi. Ma non cancellare, già l’ho detto, equivale a conoscerlo e soprattutto capirlo. Senza demoni in corpo. Senza fantasmi a inseguire il presente. Senza la paura di misurare la Storia, i suoi torti, le sue ragioni.
Per chi è nato lassù tutto ciò non può limitarsi a un augurio. È semplicemente un dovere dell’anima.