Come mai la scelta di non schierarsi, onorevole Cuperlo? È anche perché in questo modo ha più rappresentanti in assemblea nazionale?
«No, casomai è vero l’opposto, se ci fossimo apparentati all’una o all’altra candidatura i posti sarebbero stati un numero maggiore, ma nulla di ciò che abbiamo fatto in questo mese e mezzo aveva quello come scopo. Direi che è una scelta di coerenza, non volevamo che un congresso tanto importante si riducesse a un derby tra due persone, che pure stimo, e abbiamo messo a disposizione di tutti una proposta di riforma radicale del partito sapendo che alle spalle non avremmo avuto potentati o correnti».
Lei è stato l’unico tra i candidati alla segreteria a proporre il ritorno al congresso tra gli iscritti abbandonando le primarie aperte agli elettori. Come mai?
«Perché penso che le primarie siano uno strumento formidabile di partecipazione per indicare il futuro candidato o candidata premier, un candidato sindaco o una presidente di Regione. Ma penso anche che la scelta di chi deve guidare questa comunità debba tornare nei poteri e nelle disponibilità degli iscritti».
Tra i punti che più separano Bonaccini da Schlein c’è il ruolo dello Stato in economia: per Bonaccini, ad esempio, il lavoro precario va combattuto rendendo fiscalmente meno conveniente per le imprese mentre per Schlein si deve intervenire per legge. Lei che cosa pensa?
«Penso che dovremmo ispirarci ai buoni esempi. Nella Spagna del governo Sanchez la riforma della ministra Diaz, rendendo più costosi i contratti a tempo determinato, ha incentivato la stabilità nei rapporti di lavoro con un duplice vantaggio per i lavoratori e le imprese. La legge serve se parliamo di quel salario minimo orario che esiste quasi ovunque in Europa e che andrebbe accompagnato da una legge sulla rappresentanza per disboscare le quasi mille tipologie contrattuali – dieci anni fa erano meno di quattrocento – numero lievitato per aggirare un sistema di tutele e garanzie che è necessario ripristinare. Quanto al ruolo dello Stato in economia credo che la questione sia stata risolta parecchio tempo fa da Keynes. Nelle fasi di difficoltà o recessione della produzione, del lavoro e dei consumi, lo Stato non deve fare un po’ meglio o un po’ peggio quello che fanno gli altri, deve fare quello che nessuno fa, vale a dire investimenti».
Ecologia e lavoro. Con la transizione non si rischia di perdere posti di lavoro e danneggiare le nostre imprese?
«La realtà è che quella transizione non può essere a titolo gratuito, ma i costi non possono essere unicamente sociali e pesare sulle spalle dei lavoratori e delle imprese costrette alla cassa integrazione o alla chiusura. La sfida è fare sì che un nuovo modello di sviluppo sostenibile in termini economici, sociali e ambientali preveda politiche di conversione per quei settori che rischiano altrimenti di essere espulsi dal mercato. Se davvero quella che abbiamo davanti è una nuova rivoluzione delle forme della produzione e del consumo, allora è necessario che le strategie industriali di un paese come il nostro aggrediscano il problema senza subirlo con un di più di investimenti e creatività. Il tutto in un’ottica dove l’Europa deve assumersi le sue responsabilità a partire dalla riforma del patto di stabilità e delle norme sugli aiuti di Stato».
Schlein parla di “nuovo modello di sviluppo” e durante i lavori della costituente qualcuno ha mosso critiche al sistema capitalistico che hanno ricordato vecchi approcci. Non crede che queste discussioni siano un po’ staccate dalla realtà?
«Penso che non dobbiamo avere paura delle parole. Nessuno di noi avrebbe mai immaginato di poter assistere il 6 gennaio del 2021 all’assalto da parte di centinaia di squadristi al tempio della democrazia americana, la sede del Congresso. Ma se qualcosa del genere è potuto accadere e se il presidente degli Stati Uniti d’America parla apertamente di democrazie più “fragili“ nel cuore dell’Occidente è perché la combinazione tra la grande crisi del 2008 con le recessioni che ha provocato, e a seguire la pandemia, hanno prodotto un impatto sulla classe media che non ha precedenti nella seconda metà del ’900. Quando il corpo centrale della società, le classi medie appunto, sente messe in discussione le sue conquiste, le stesse certezze da trasmettere alle generazioni successive, le istituzioni delle democrazie possono non reggere l’urto ed è su questo che bisogna riflettere oggi, sul nuovo legame tra capitalismo e democrazia. Fuori da caricature, nessuno immagina di fuoriuscire da una società di libero mercato, si tratta di capire come ricostruire un patto, un compromesso sociale, che eviti derive di tipo autoritario. Credo che una discussione di questo genere non dovrebbe allarmare nessuno, tantomeno i settori più avanzati e dinamici dell’impresa consapevoli che senza un consenso sociale nessuna innovazione può affermarsi e evolversi».
Un altro tema divisivo è quello delle alleanze: va privilegiato il M5S o il Terzo polo?
«A volte cito quel vecchio ammonimento di Norberto Bobbio rivolto a una sinistra anche allora divisa al suo interno: “Discutono del loro destino senza capire che dipende dalla loro natura, decidano la loro natura e avranno chiaro il loro destino”. Parafrasando, direi che dobbiamo discutere della nostra identità prima di avventurarci nello schema di future alleanze. Quelle arriveranno come una conseguenza logica».
Schlein ha bollato come “sciagurate” le riforme messe in campo a suo tempo da Renzi. A distanza di anni, qual è il suo giudizio di quella stagione?
«In quella stagione sono stato minoranza con altri e altre scegliendo di rimanere nel mio partito, convinto che di una forza centrale della sinistra questo paese avesse bisogno. Credo che quella fase abbia ottenuto risultati importanti se penso ad alcuni traguardi sulla frontiera dei diritti civili. Il limite credo sia stato in un’idea sbagliata che ha immaginato di poter modernizzare il paese sulla base di un legame diretto, e non più mediato da forze sociali e corpi intermedi, tra il potere politico e l’opinione pubblica. La stessa riforma costituzionale che ha portato alle dimissioni il governo Renzi aveva un impianto fortemente centralistico mentre passaggi rilevanti, come quel Jobs Act che io non votai, ebbero l’effetto di rompere un legame di fiducia tra il Pd e parti intere del nostro mondo di riferimento. Detto ciò non ho mai amato rottamazioni e scomuniche, continuo a credere che la politica sia riflessione, scavo e capacità di cogliere la quota di vero presente nelle ragioni degli altri».
Per chiudere, un tormentone a sinistra: patrimoniale sì o no?
«La collegherei alla riforma della tassa di successione: abbiamo la franchigia più alta in linea di successione diretta e l’aliquota più bassa d’Europa. Quanto a un contributo straordinario di solidarietà dei redditi più alti lo aggancerei alla proposta di una mensilità in più per i lavoratori dipendenti con salari fermi da trent’anni e con una inflazione che si divora un mese di stipendio. E occorre un prelievo maggiore sugli extra profitti».