Abbiamo intervistato Gianni Cuperlo, candidato alla segreteria dem, sulla sua idea per rifondare il Partito democratico.
La guerra è entrata nel nostro vissuto quotidiano ma non nel dibattito politico italiano né in quello costituente del “nuovo Pd”. Cosa c’è dietro questa rimozione?
Non so se rimozione sia il termine giusto. Penso che per molte persone gli interrogativi e i dubbi su quale piega stia prendendo questa tragedia siano sinceri. Mi è capitato di riprendere una formula che riassume la situazione nella quale ci troviamo: se la Russia smette di combattere finisce la guerra, se l’Ucraina smette di difendersi finisce l’Ucraina. Io ho un rispetto profondo per la posizione di chi ritiene che l’invio di armi sempre più potenti sia destinato ad alimentare un conflitto che qualcuno immagina di concludere con la vittoria sul campo di una parte sull’altra. E mi rendo conto del pericolo angosciante che abbiamo di fronte, quello che considera possibile per la prima volta dopo quasi ottant’anni il ricorso all’arma nucleare. Capisco anche l’appello, che condivido, a fare pressione sull’Europa perché assuma una iniziativa politica e diplomatica condivisa con l’amministrazione americana e tesa a coinvolgere in una triangolazione Pechino. Oggi lo spiraglio di quella trattativa sembra inesistente, ma è decisivo non rinunciare all’unica strada che può fermare un massacro ed evitare lo scenario catastrofico di un conflitto più esteso.
Quali prospettive abbiamo davanti?
Nelle ultime settimane il Pentagono ha parlato di una guerra destinata a durare per tutto il 2023 con un’offensiva russa in primavera di 300.000 soldati, ma è anche vero che Mark Milley, il Capo degli Stati Maggiori Riuniti, ha spiegato che non si potrà respingere l’occupazione russa entro la fine di quest’anno e per la stessa ragione bisogna indurre Mosca a considerare una soluzione diplomatica. Questo è il vero dramma di adesso: che il piano politico e quello militare sembrano due binari destinati a non incontrarsi. E però e nonostante tutto, come ha spiegato Lucio Caracciolo, Washington e Mosca si parlano e tra i vertici militari americani e russi si sono recuperate alcune prassi della guerra fredda almeno per evitare pericolosi incidenti. Detto ciò penso che in questo scenario così cupo la voce delle piazze, la volontà dell’opinione pubblica europea di premere per una tregua, sia una voce importante che deve levarsi. Sino a oggi lo ho fatto quasi solamente Papa Francesco, ma esiste una responsabilità della politica e della sinistra.
Oggi il Pd discute sulla sua identità: che senso ha arrovellarsi attorno a questo tema?
Potrei dire che la destra ha vinto, e non solo in Italia, proprio perché ha affrontato prima e meglio di noi il tema della propria identità e ha sposato un impianto, se preferisce una ideologia, che le ha consentito di guadagnare il consenso di una parte della società che in passato non aveva mai conquistato. Loro con grande spregiudicatezza hanno declinato una politica redistributiva col particolare che l’hanno interpretata in senso contrario a una riduzione delle disuguaglianze e dunque delle ingiustizie. Per la nuova destra una politica redistributiva vale solamente a favore dei loro elettori, per tutti gli altri, migranti, i gruppi sociali di riferimento del centrosinistra, vale la logica della discriminazione. Per capirci, molti elettori della destra condividono la necessità di maggiore giustizia sociale, di un lavoro stabile, di un intervento più efficace dello Stato. Il punto è che ancora non vedono la radice reazionaria e discriminatoria di una strategia che utilizza argomenti all’apparenza simili al vocabolario della sinistra ma tradendone l’anima e soprattutto la sostanza.
Il ministro Valditara ha riproposto le gabbie salariali per gli insegnanti.
Quella di Meloni è l’interpretazione moderna di una politica corporativa. La vera continuità con la destra tradizionale è nell’identificare un nemico che siano i migranti, chi è povero o domani magari le stesse istituzioni della democrazia. La novità è che lo fanno con gli strumenti della spesa pubblica e con l’intervento dello Stato. Ecco perché a noi serve un congresso che discuta di come contrapporre a questa ideologia un impianto altrettanto forte e capace di attrarre consenso e restituire fiducia a quanti negli anni abbiamo deluso. Per riuscirci a noi serve un nuovo pensiero sul tempo che stiamo vivendo e sulle contraddizioni che ci propone. Non mi convince l’idea di una risposta alla crisi del Pd ancora una volta di tipo programmatico, o giovanilistico, o piegata sul partito degli amministratori. A noi serve un partito calato nella contemporaneità e capace di alzare finalmente lo sguardo sul cambio d’epoca che stiamo attraversando.
Del Pci si diceva che era partito di “lotta e di governo”. Del Pd che ha fatto dello stare al governo la sua ragione di vita.
Quello non era solamente uno slogan, rifletteva una condizione precisa. Un partito “condannato” dal contesto internazionale a un ruolo di opposizione, ma che da quella condizione riusciva a dare rappresentanza a una trama di interessi e bisogni della parte che si riconosceva in quella tradizione e in quel simbolo. Oggi siamo in una condizione diversa. Lo stesso bipolarismo che aveva scortato, e in qualche misura legittimato, l’atto di nascita del Pd, ha fatto spazio a una dinamica del sistema politico calibrata su tre o forse quattro poli distinti. Questo significa che per noi diventa decisivo definire la natura di questo progetto e le forme e i contenuti che possono proiettarlo con un ruolo da protagonista nell’Italia dei prossimi anni. È vero, l’essere rimasti al governo per diverse stagioni anche senza aver vinto le elezioni ha trasmesso un’immagine sbagliata, quella di una forza che del governo non faceva più il mezzo, lo strumento, per ottenere determinati traguardi, ma il fine ultimo della sua iniziativa. Ed è proprio questa critica che deve spingerci a ripensare il nostro modo di essere, di discutere, di assumere le decisioni, di formare e selezionare una classe dirigente.
Quindi oggi che cosa si deve cambiare?
Se noi avessimo davvero consultato i nostri iscritti su scelte tutt’altro che scontate, come dare vita a governi che non avevamo proposto né immaginato alla vigilia del voto, da Monti al Conte 2 a Draghi, molto probabilmente avremmo ottenuto la piena legittimazione a percorrere quei sentieri, ma rivendicando la nostra autonomia culturale e politica evitando di schiacciarci sull’agenda Draghi o sulla previsione di un lutto nazionale per la caduta di quell’esecutivo. Questo ci avrebbe aiutato a gestire in modo diverso anche le alleanze con le quali ci siamo presentati al voto di settembre.
La recente assemblea nazionale del Pd ha approvato la nuova carta dei valori. Farà la fine di quella precedente?
Credo che questa discussione abbia scontato un vizio all’origine nel senso che non si è mai trattato di archiviare la Carta di sedici anni fa fosse solo perché un partito che cambia i suoi valori ogni dieci anni non ha un futuro perché ignora il suo passato. Il tema è che non sempre noi siamo stati coerenti con l’applicazione di quei valori nelle scelte che abbiamo compiuto e oggi si tratta di ricollocare quei principi in una società radicalmente mutata, nelle nuove forme del mercato del lavoro, nell’impatto dell’intelligenza artificiale, nei conflitti determinati da una mancata redistribuzione di reddito e risorse, nella necessità di governare flussi migratori destinati a moltiplicarsi. Su tutto questo deve fondarsi quella fase costituente che dal mio punto di vista dobbiamo proseguire nei prossimi mesi e che non si risolve in un nuovo documento. Ha ragione Massimo Cacciari quando dice che la sinistra deve creare un’alleanza strategica tra i soggetti dell’innovazione e milioni di persone che vivono quell’impatto come una minaccia.
Due padri nobili del Pd, Romano Prodi e Giuliano Amato, hanno speso parole severe denunciando una mancanza di proposte chiare e comprensibili anche dentro il dibattito dei quattro candidati alla segreteria.
Sono critiche che vanno ascoltate e a cui va data risposta. A partire dalla proposta di salari più alti in un paese che li vede inchiodati da trent’anni. E ancora, penso a una grande campagna sul diritto a curarsi. Per milioni di italiani questo diritto è negato a causa di tempi di attesa lunghissimi nel pubblico soprattutto dopo il Covid. Serve un piano straordinario, risorse e personale, con l’obiettivo di non lasciare nessuno senza l’assistenza necessaria. Terzo titolo: scuola, scuola e ancora a scuola. Manutenzione “ordinaria” di migliaia di edifici e manutenzione “straordinaria” della didattica in termini di strumenti e tecnologia. Stabilizzare la precarietà e alzare lo stipendio agli insegnanti restituendo il prestigio sociale a quella “missione”. Sfruttare i 4 miliardi e 600 milioni del Pnrr per asili nido e scuole dell’infanzia creando 230 mila posti di lavoro. Infine, sostegno e risorse per i Centri antiviolenza e un’assistenza legale gratuita per le donne vittime di molestie e violenza fuori e dentro l’ambiente familiare. Sono esempi di cosa significa tradurre un impianto culturale, una lettura della società, in un ventaglio di proposte e campagne da condividere col mondo fuori da noi. Con questo spirito ho proposto la costruzione di veri e propri “ Comitati per l’alternativa”. Dobbiamo collegare di nuovo l’Italia reale con il dovere di darle una rappresentanza. L’ultima volta che l’abbiamo fatto è stato con l’Ulivo e i “Comitati per l’Italia che vogliamo”. Oggi e tempo di rifarlo.
Tra un mese o giù di lì il Pd terrà le primarie per la segreteria.
Questa volta non si tratta di scegliere solamente un nuovo nome e un nuovo volto, ma di rifondare questo progetto sapendo che sarà decisivo nell’Italia dei prossimi anni.