In una lunga testimonianza su questo giornale il ministro Sangiuliano ha motivato il proprio anticomunismo individuando nel voto del Parlamento europeo sulla condanna dei totalitarismi novecenteschi (19 dicembre 2019) la prova regina dell’equiparazione tra nazismo e comunismo.
Sul nodo Giovanni De Luna ha ieri precisato con lucidità percorsi e differenze dei due processi.
Resta che la riflessione del ministro ha spaziato su stagioni e crimini maturati in contesti diversi.
Dall’invasione sovietica dell’Ungheria nel ‘56 alle stime dello storico Courtois sul numero di vittime imputabili a regimi comunisti in Europa e Asia.
Ma la gran parte dell’escursione si è concentrata sulla parabola di una singola forza, quel Partito Comunista Italiano processato per l’intolleranza verso ogni dissenso politico e intellettuale, da Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone a Croce, De Felice e Giolitti.
A corollario, la “struttura paramilitare del partito”, l’oro di Mosca documentato anni addietro da un bel volume di Gianni Cervetti, e in una mescolanza curiosa il tributo alla morte di Stalin nel marzo del ‘53 o il giudizio ostile ai Trattati di Roma qualche anno più avanti.
A fine lettura, però, una domanda rimane sospesa ed è se l’intero excursus muovesse dalla sola esigenza di scrollarsi di dosso l’accusa al governo e alla premier Meloni di non poter condannare in modo esplicito il fascismo italiano e i suoi epigoni.
È vero che in uno slancio di obiettiva verità il ministro riconosce al bel paese la paternità del ventennio mussoliniano concedendo finanche che il Pci “si sarebbe adoperato per la costruzione della democrazia”.
Non per pensar male, ma quel condizionale – “si sarebbe” – pare rivelatore di un sentimento malcelato.
Il punto, caro ministro, è che il comunismo italiano, compresi i suoi errori e contraddizioni sulle quali lei troverà scaffali interi di biblioteche, ha offerto un contributo decisivo alla sconfitta del fascismo col suo corredo di leggi razziali e complicità nella pagina più tragica del secolo alle spalle.
Quel partito ha reso solida la Repubblica nel suo compromesso costituzionale e ne ha difeso le istituzioni lungo gli anni tormentati dallo stragismo e dai terrorismi di diversa matrice.
Ecco perché la domanda sul sentirsi e dirsi antifascisti nell’Italia del 2024 non è, me lo consenta, l’equivalente del chiedere (magari impadronendosi del microfono di un giornalista) se il malcapitato si ritenga parimenti un convinto anticomunista.
Lo si capisce più facilmente davanti alla Risiera di San Sabba o a Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema, o a mezz’ora dal suo ministero alle Fosse Ardeatine.
Lei sostiene che la condanna del comunismo non può relegarsi “all’esperienza soggettiva e storica” ma deve contenere “una visione filosofica e culturale”.
E qui però, caro ministro, dovrebbe venirle naturale cogliere l’anomalia di quel partito che lei con dotti rimandi fa salire sul banco degli imputati.
Perché l’impianto ideale e culturale di quella forza si è distinto per un pensiero spesso eretico verso l’ortodossia del movimento comunista.
Questo vuol dire negare la sua stagione stalinista o la rottura tardiva con quell’Unione Sovietica che neppure la primavera gorbacioviana è riuscita a redimere da colpe e delitti?
Naturalmente no, sbianchettare una storia, soprattutto se complessa come in questo caso, è sempre un esercizio miserevole.
Altro invece è collocarla nella giusta luce, e misurarne peso, ruolo e funzione nell’evoluzione della società e democrazia italiane.
Quanto alla visione filosofica, senza scomodare Antonio Gramsci a lei noto e caro, è stato un liberalsocialista come Norberto Bobbio a distinguere nel marxismo tra l’analisi economico-sociale con la quale si è misurato non senza apprezzarne tratti di lucidità e l’afflato rivoluzionario che giudicava distante e negativo in ogni senso.
A conferma degli ostacoli altissimi per chi intenda costringere movimenti sospinti da milioni di donne e uomini dietro il paravento della contingenza o i paraocchi del pregiudizio.
Caro ministro Sangiuliano, lei ha pieno diritto a dirsi convintamente anticomunista.
Se lo chiede a me le rispondo di essere stato altrettanto convintamente un comunista italiano, col la differenza rispetto a miei coetanei militanti della parte opposta di avere ancora oggi il pieno diritto a dirlo.
Mentre avendo giurato sulla Costituzione repubblicana chi non ha alcun diritto a non dirsi apertamente antifascista sono la presidente del Consiglio e la seconda carica dello Stato.
Mi creda, la differenza è tutta qui.