Cuperlo, lei è votato alla sconfitta.
«No, ma questa volta la casa brucia, e ci sono battaglie che vale la pena combattere».
L’ultimo romantico.
«Diciamo idealista. Ingenuo, forse».
Cuperlo che nome è?
«Forse ungherese: si scriverebbe con la K. Ma non ho un folto albero genealogico. I miei avi sono tutti triestini, tranne un nonno romagnolo».
Cosa facevano i suoi genitori?
«Mio padre impiegato in una ditta di import-export, mia madre casalinga. Eppure riuscivano a portare me e mio fratello a mangiare il pesce a Muggia una volta al mese, e ad agosto a passeggiare dieci giorni sulle Dolomiti. Oggi una famiglia come la mia di allora non potrebbe permetterselo».
Era l’Italia del miracolo economico.
«Che alle spalle aveva il lavoro duro, talvolta la fame. Nonno Vittorio Cuperlo era tipografo, lo ricordo con le dita sporche di inchiostro, ormai non veniva più via. L’altro nonno, Enea, morì giovane. Sua figlia Adriana, la sorella di mia madre, dovette emigrare: la rotta per le Americhe era chiusa; così nel 1957, appena sposata, partì in piroscafo per l’Australia. Melbourne».
Ha mai incontrato zia Adriana?
«Una volta sola, quando tornò in visita a Trieste. Accompagnai suo marito, zio Mario, in giro per la città, e vissi l’euforia e lo strazio dell’immigrato, che fatica a riconoscere la sua città così cambiata, e nello stesso tempo se l’è portata dietro. In Australia i triestini si trovavano tra loro, parlavano dialetto, cucinavano i loro cibi, ascoltavano le loro canzoni… Ancora adesso, ogni volta che viene a Trieste mia figlia Sara si sorprende: anche i farmacisti le parlano in dialetto».
Città letteraria, da Joyce a Magris.
«È dall’adolescenza che mi prefiggo di leggere l’Ulisse; non sono mai andato oltre pagina 80. Mi ha sempre affascinato l’amicizia tra Joyce e Svevo. Sa come si conobbero?».
No.
«Joyce andò nella villa di Svevo, anzi della moglie, a dargli lezioni di inglese. Lui gli fece leggere i suoi primi romanzi, Una vita e Senilità, stroncati dai critici. Joyce tornò dopo una settimana e gli disse, ovviamente in dialetto triestino: “I critici non capiscono nulla, lei è un grande scrittore”. Così Svevo ci regalò La coscienza di Zeno».
Quando vide D’Alema per la prima volta?
«Nel suo ufficio al secondo piano di Botteghe Oscure: lui capo della segreteria di Occhetto, io della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Alzò lo sguardo e mi chiese, secco: tu quanti libri leggi al mese?».
E lei?
«È la classica domanda che ti mette in difficoltà. Infatti non risposi».
Lei Cuperlo quanti libri legge al mese?
«Cinque o sei. Quasi solo saggistica».
Romanzi no?
«Meno. Ma ho passato il lockdown a rileggere I fratelli Karamazov e a guardare lo sceneggiato Rai. Corrado Pani, che da bambino avevo visto al Rossetti di Trieste, è un Dmitrij straordinario».
Perché scelse D’Alema e non Veltroni?
«Ho sempre apprezzato il modo in cui Veltroni modernizzò la nostra comunicazione, e i vari modi in cui ora continua a fare politica. Ma mi pareva che attorno a D’Alema potesse nascere un partito più solido».
Qualcuno ha accostato la parabola di D’Alema a quella di Rimbaud nella canzone di Vecchioni: «E volersi fare male al punto di finire lui mercante d’armi…».
«Si fermi che ci querela».
Scherzi a parte: a Palazzo Chigi lei era uno dei Lothar, come li definì Maria Laura Rodotà. L’unico con i capelli. Gli altri erano Minniti, Velardi, Rondolino, La Torre.
«Non ero un Lothar e non solo per i capelli; tanto che all’inizio del governo D’Alema rimasi al partito, lavorai a Chigi solo gli ultimi sei mesi. L’errore loro fu di sostituire il partito con il leader carismatico; non a caso tutti i miei amici che lei ha citato sono rimasti affascinati da Renzi. Finì male allora, con l’11-4 alle Regionali del 2000; ed è finito male pure Renzi».
Con Renzi lei fu presidente del Pd.
«Per 32 giorni. Presi la parola in direzione per contestare l’accordo con Berlusconi sulla legge elettorale, il famigerato Italicum. Renzi mi liquidò in modo sprezzante: parla questo che in Parlamento è stato nominato. Mi dimisi. Mia figlia mi mandò un WhatsApp: “In 32 giorni nessuno avrebbe potuto fare meglio”. Aveva ragione lei a prendermi in giro, e torto io».
Perché?
«Non bisogna essere permalosi, tanto più che ho continuato la battaglia da dentro il gruppo dirigente. Comunque dal partito non me ne sono mai andato».
D’Alema, Bersani, Speranza sì.
«E ora rientrano. Ero convinto che stessero sbagliando. Pensavano che il Pd con Renzi avesse perso l’anima in modo irreversibile. Non era vero».
Ora lei in Parlamento c’è tornato.
«Dopo quattro anni di cassa integrazione, all’inizio a zero ore».
Com’è andata?
«Scaduto nel 2018 il mandato, il tesoriere…».
Bonifazi.
«Il tesoriere mi disse, senza malizia, che per il mio bene non avrei percepito lo stipendio da funzionario del partito, pur continuando a lavorare. Cosa che ho fatto volentieri, consapevole che c’erano tanti cassintegrati messi peggio di me».
Cosa pensa della Meloni?
«Una leader più attrezzata di Salvini. Ma la sua non è la destra delle liberalizzazioni, o quella berlusconiana del conflitto di interesse, o quella leghista delle felpe. È una destra dura, strutturata. Non è folklore; è un impianto, un’ideologia. Per batterla culturalmente dovremo mobilitare tutte le nostre risorse e farlo nella società».
Sul serio crede a un rischio autoritario?
«Credo al rischio indicato da Dossetti: ogni governo autoritario comincia con un’iniezione di paura a cui si offre un antidoto, ma in cambio di una quota di libertà».
Ad esempio?
«Ad esempio questo governo tratta la povertà come una colpa da espiare, come ai tempi di Dickens, quando i poveri per legge dovevano accettare un lavoro a qualsiasi salario, pena finire reclusi in ospizio».
Conte è più attrezzato di voi a fare opposizione?
«Più che la Meloni, Conte sembra voler distruggere il Pd. Proprio come Renzi. Sono in questo congresso anche per aiutare a impedirlo».
E Calenda?
«Mi è simpatico. Ma nel Cuore girato da suo nonno, più della parte di Enrico Bottini, gli sarebbe piaciuta quella di Franti».
Perché ora lei si candida a leader? Non è che l’idealista Cuperlo in fondo è un ambizioso?
«Se lo fossi, avrei accettato il posto da ministro che mi è stato offerto, e per due volte».
In quali governi?
«La prima volta nel governo Gentiloni; ma avevo votato sì al referendum, e non volevo essere accusato di alto tradimento. La seconda nel Conte bis; ma non mi convinceva l’operazione, fatta senza neppure consultare i nostri iscritti».
Perché ora la sua corsa impossibile alla segreteria del Pd?
«Umberto Saba scrisse una lettera a Scipio Slataper per chiedergli cosa restava da fare ai poeti; la sua risposta fu: una poesia onesta. Vale lo stesso per noi. Ci resta da fare una politica onesta. Che non significa solo non rubare, ma mostrare che si è disposti a rischiare».
Perché non va bene Bonaccini?
«È un amico e lo stimo, ma dietro a lui come dietro a Elly vedo ripararsi tutto il solito e inamovibile establishment, quello che ha passato ogni temporale senza mai bagnarsi. E poi non credo al partito dei soli amministratori. Il doppio incarico, come ha dimostrato il caso Zingaretti, non funziona. Dobbiamo coinvolgere soprattutto gli amministrati. Il Pd va rifondato e aperto ai movimenti, alla società».
E l’altro?
«Quelli convinti che solo la partecipazione popolare possa cambiarci. È il filone in cui mi riconosco. Quello di Gobetti, Gramsci, Sturzo».
Berlinguer l’ha mai conosciuto?
«L’ho visto quando venne a Trieste, per i funerali di Vittorio Vidali, il comandante Carlos. Lo ricordo al bar della federazione prendere un caffè con Rafael Alberti, il poeta, che aveva conosciuto Vidali nella guerra di Spagna».
A Trieste lei torna ogni tanto?
«A trovare mia madre. Dopo la morte di mio padre volle andare a vivere in una Rsa, nel 2019. Il Covid fu un’esperienza terribile. A lungo non ho potuto vederla. Poi mi bardavano come un palombaro, me la trovavo davanti sulla sedia a rotelle, dietro un divisorio di plastica, su cui mettevamo il palmo della mano per salutarci, come i carcerati… Tutto il sistema delle Rsa andrebbe ripensato. Tutta la sanità pubblica è da salvare. Non le pare un’altra buona ragione per candidarsi?».