Leggi l’intervista completa qui https://www.huffingtonpost.it/politica/2023/06/22/news/gianni_cuperlo-12461554/
Gianni Cuperlo, non so lei, ma io ho una grande nostalgia del Pci: la politica in grande, il metodo, l’orecchio a terra sulla società, le direzioni dove si analizzavano le sconfitte. Vado avanti?
Se va troppo avanti rischia di finire nel secolo scorso come Marty McFly sulla DeLorean.
La macchina del tempo di “Ritorno al futuro”?
Sì, quella. Lei rianima miti e riti che avevano un senso in quel contesto. Parliamo di partiti ancorati a culture piantate nella parabola del Paese. Non erano macchine di voti, nonostante alle urne ci andassero nove italiani su dieci e l’astensione fosse un fenomeno marginale nel corpo della società, ma lo sa perché?
Lo sospetto, ma mi dica la sua.
Perché la società era “dentro” quelle culture e quei partiti.
Appunto, il rapporto col paese. E i circoli, le sezioni, le parrocchie…
Nel senso che si sentivano parte integrante delle loro storie. Per il Pci gli operai non sono mai stati solo un bacino di consenso, erano un soggetto politico dotato dell’intelligenza collettiva per guidare il Paese. Il che rendeva logica anche la presenza di una quota di operai nella rappresentanza all’interno delle istituzioni. Quella sinistra non aveva il problema periodico di “andare a parlare agli operai”. Convocava gli organismi dirigenti sui territori o a Botteghe Oscure e gli operai erano lì, non a chiedere permesso, ma a indicare la rotta da un punto di vista che in quelle forze godeva piena cittadinanza.
Converrà con me che vi siete perso tutto. Cosa resta di quella tradizione, scuola, la chiami come vuole?
Ma il tema non è cosa resti di quella tradizione, tolte ovviamente la generosità di chi alza la saracinesca di un circolo o spende le sere a cucinare nelle feste de l’Unità. Il nodo è come ricostruisci un’idea di partito che non sia un comitato elettorale permanente dove contano solo gli eletti mentre per tutti gli altri si pone il problema di non avere alcuna agibilità politica.
Lo sento da anni. Diciamocelo: un partito dei soli eletti non è più un partito.
Dico che è un’altra cosa, se vuole inevitabilmente. Sabato ne abbiamo discusso a Bologna in una bella giornata organizzata da “Promessa Democratica”, la nostra piattaforma al congresso.
Cuperlo, glielo dico in amicizia perché lei è simpatico e sembra anche credere nelle cose che dice, ma il congresso è finito!
Lo so. Le sto dicendo un’altra cosa, che se la democrazia di un partito della sinistra si riduce alla rincorsa di un posto al sole nel primo consiglio comunale, regionale, al Parlamento nazionale o in quello di Strasburgo, tutta la ricerca e l’elaborazione di una strategia che parli a una maggioranza del Paese si riduce a una rincorsa all’essere eletti e, di conseguenza, in un ritorno all’accesso patrimoniale alle cariche elettive con una doppia capriola. Non nel partito novecentesco, ma nel notabilato di fine Ottocento. Questo è un problema serissimo che dobbiamo affrontare avendo il coraggio di riproporre un finanziamento pubblico regolato alla politica e un’applicazione dell’articolo 49 della Costituzione come ha detto la segretaria nel suo discorso alla direzione.
Ecco, veniamo alla direzione. Lei una volta ha scritto: siamo la generazione dei traslochi. All’ultimo vi siete scordata la politica, però il tatticismo esasperato ve lo portate sempre.
Mi prendo la critica ma la matrice della sinistra è sviluppare uguaglianza e giustizia dentro società impelagate in processi economici e sociali che con quegli obiettivi tendono a confliggere. Per una fase dello sviluppo occidentale questo le è riuscito di fare. Con gradazioni diverse tra le due sponde atlantiche e tra Europa nordica, continentale e mediterranea, ma il welfare e l’inclusione della classe media in un lungo ciclo del benessere hanno esteso l’accesso alla cittadinanza e smosso il vecchio ascensore della mobilità.
Salvo che le disuguaglianze a un certo punto sono riesplose nel cuore di quel miracolo economico.
Precisamente, ed è lì che la sinistra sciupa l’occasione mancando l’appuntamento con la sua storia. Una lettura parziale della globalizzazione ha fatto il resto e se osserviamo il percorso degli ultimi vent’anni scopriamo che i grandi paesi, compreso il nostro, stanno regredendo alle loro identità corporative, persino etniche. C’è un abbandono di quella via universalistica che Gramsci indicava come la prospettiva del futuro e che per noi rischia di trasformarsi in una istantanea del passato.
Mi cita Gramsci perché anche lei angosciato che se ne impadronisca la destra?
Lasciamo stare, per loro Dante, Gramsci, Pasolini sono prodotti da esibire, ciò che conta è che non turbino orari e tariffario delle televendite! Citavo Gramsci per ricordare come per lui quella propensione corporativa sarebbe stata superata col venir meno dei ceti contadini e invece, ne ha ragionato anni fa Giuliano Amato, quel sentimento è transitato nella piccola borghesia in una forma di “ribellismo anarcoide”.
Cuperlo, io le parlo di politica e lei mi va a nuotare nella sociologia…
No, voglio dire che quella spinta a occuparsi esclusivamente dei propri interessi, i vecchi e grandi partiti non l’avevano sconfitta. L’avevano solo nascosta, messa in condizione di non recare danni. Ma appena quei partiti hanno smesso di vivere è riemersa. Se vuole con un fenomeno che nel nostro caso attecchisce anche per i limiti che il nostro modello economico ha conosciuto nel tempo.
E quindi?
Quindi a proposito del prevalere della tattica finalizzata a gestire il trimestre prossimo, qui vive il bisogno di elaborare una cultura politica. Anzi, tolga cultura e come le avrebbe detto Alfredo Reichlin, qui si misura la sfida di “una politica” che respinga il ricatto di ricette obbligate e prive di una alternativa, dall’economia allo Stato protettivo, dal concetto di sicurezza alle vie della transizione energetica e climatica. Se la sinistra vuole raddrizzare qualche stortura del pianeta ha da essere meno ortodossa e un tantino più eretica. Nel pensiero, come nell’azione e nelle alleanze. Meno di questo e quel mondo rimarrà “guasto” come da denuncia di Tony Judt.
E arriviamo a Elly Schlein che nasce così: prendi una donna, giovane, di sinistra. È perfetta per far finta di cambiare tutto per non cambiare nulla.
Non banalizzerei. Al congresso ho fatto una scelta diversa, mi sono candidato perché speravo che la discussione scavasse nei motivi che in sedici anni di vita ci avevano fatto cambiare nove segretari e perdere sei milioni di voti. Le primarie hanno dato un esito che molti non avevano previsto, ma ora Elly Schlein interpreta quella spinta all’innovazione.
Mi perdoni, ma non vedo discontinuità sostanziale, in termini politici. Anzi, non vedo proprio una linea e una visione.
Non è solo un tratto generazionale che pure conta, o una questione di genere che conta anche di più. È la domanda di una frattura col prima in termini di linguaggio, gerarchia delle priorità e quel mix di pragmatismo, programmismo e idealità a cui la sinistra non può rinunciare pena ridursi a un centro studi.
Su questo mi tocca darle ragione, le scissioni di questi anni non hanno portato bene a chi le ha fatte.
Se è per quello nemmeno a chi le ha subite. Io con altre e altri nel Pd siamo rimasti sempre, anche da minoranza un pochino bistrattata, ma resto dell’idea che senza una forza portante del campo progressista una alternativa a questa destra non possa nascere.
Facciamo un gioco allora. Torni giovane, e immagini una direzione del Pci dopo una sconfitta come le scorse amministrative.
Relazione del responsabile enti locali. Una giornata di dibattito. Conclusioni del segretario. A seguire conferenza stampa del coordinatore della segreteria con appello a promuovere il massimo impegno di “tutte le nostre organizzazioni territoriali e sui luoghi di lavoro per affrontare con la massima mobilitazione le importanti sfide politiche ed elettorali dei prossimi mesi”. Fine.
E ora pensi al discorso di Elly Schlein e degli altri. E mi descriva la faccia di Pajetta o Napolitano.
Lasciamo in pace quei giganti e riascolti la relazione della segretaria.
Mancava l’analisi della sconfitta: contesto oggettivo e responsabilità soggettive.
Ha riconosciuto la sconfitta, ha indicato un lavoro da fare senza tagliare le ali, ha chiesto sincerità nelle critiche e volontà di procedere nell’idea che l’avversario sta dall’altra parte. Spero solo che l’unità del voto che ha concluso quella riunione trovi sponda nelle azioni dei prossimi mesi. Alla segretaria ho detto che oggi lei non è la leader di una mozione ma di tutto il partito e chi si trova in testa alla cordata ha una responsabilità in più perché quelli dietri, tutte e tutti, devono fidarsi di lei. L’autorevolezza di una guida viene anche da qui.
Insisto: ma è possibile che mai nessuno si prende una responsabilità? Successe il 25 settembre, succede oggi. Colpa del “vento”, “colpa di quelli di prima” …
Per la verità dopo il voto di settembre Enrico Letta si è fatto da parte impostando una fase costituente che dovrebbe vivere da ora in avanti, almeno se vogliamo che l’alternativa alla destra sia partecipata come fu col primo Ulivo di Prodi e i suoi “Comitati per l’Italia che vogliamo”. Sempre con “Promessa Democratica” abbiamo lanciato la proposta di “Comitati popolari per l’alternativa” su temi che toccano la pelle delle persone. Sanità pubblica al collasso e sabato manifesteremo con la Cgil e decine di associazioni, il contrasto al disegno Calderoli sull’autonomia e a un presidenzialismo depurato di contrappesi, una strategia sul lavoro che il governo riduce a un taglio del cuneo una tantum e all’incentivo della precarietà. Abbiamo perso le ultime amministrative, è vero. Anche qui con qualche bella eccezione, ma non mi pare che il tutto sia finito sotto al tappeto.
Nella vostra direzione ho sentito molte citazioni musicali. Citi una canzone anche lei, dato che ci stiamo.
Cambia lo superficial / Cambia también lo profundo / Cambia el modo de pensar / Cambia todo en este mundo
Bellissima canzone di Mercedes Sosa. Però qua non cambia nulla. Ho sentito Francesco Boccia sostenere: “Abbiamo preso il Pd al 14, ora i sondaggi lo danno al 20”. Lo sa che valgono le urne e non i sondaggi?
Credo lo sappia bene.
Lei che è informato: ci spiega il metodo di lavoro del nuovo gruppo di comando del Pd.
Non posso perché non ne faccio parte.
Ecco, a proposito di gruppo dirigente, ma è vero come scrive il “Domani” che Zingaretti ha chiesto il suo posto di presidente della Fondazione del Pd?
La sola cosa che posso dirle è che i tre anni di impegno su quel progetto sono stati appassionanti e ringrazio quanti vi hanno lavorato assieme a me. Dalle giornate di Bologna nel 2019 su “Tutta un’altra storia” alla scuola di politica con quasi mille iscritti e sessioni che hanno visto l’intervento di eccellenze della cultura, della scienza, della ricerca, del lavoro e delle professioni. Enrico Letta ha creduto in quel percorso e di questo gli sono grato. Ora sarà Elly Schlein a decidere come proseguire e dare forza a uno strumento che sinora non ha avuto le risorse finanziarie per strutturarsi, ma su cui la nuova segretaria ha detto di voler investire.
Torniamo sul metodo di lavoro. Questo nuovo gruppo di comando li legge i giornali? Si informa sui posti nei quali va, ad esempio sulla piattaforma delle manifestazioni? O c’è del situazionismo casuale?
Io difendo la scelta della segretaria di andare nelle piazze dove si affermano diritti e battaglie che sono anche nostre. Da quelle dei sindacati alle famiglie omogenitoriali, da Libera al 25 Aprile e alla difesa di scuola e sanità pubbliche. La piazza dei 5 Stelle era convocata contro la precarietà e per il salario minimo. Andarci e portarvi il saluto era il modo per dire che su molti punti le opposizioni devono marciare unite. Il che non significa che ogni parola pronunciata da quel palco sia condivisa. Bisogna anche avere un po’ di orgoglio per le proprie posizioni.
D’accordo, ma la famosa collegialità, il non decidere tutto da soli, forse aiuterebbe anche a evitare situazioni imbarazzati. Mi faccia capire, quante volte si sono riuniti i gruppi dirigenti in questi mesi? Quante conferenze stampa avete fatto per spiegare le vostre proposte? Non dirette instagram, dico.
Adesso un gioco glielo propongo io. Me lo dice quale altro partito, movimento, forza politica, in questo paese discute come facciamo noi? Quale partito convoca regolarmente dei congressi degni di definirsi tali? Abbiamo tenuto assemblee nazionali, direzioni, immagino più di qualche segreteria. Ma visto il suo attaccamento ai riti del passato, le racconto questo. Nel 1984, anno della sua morte a Padova, l’Unità riportò la voce del segretario comunista per sole tre volte in sei mesi. Per una visita in Grecia ospite del Pasok, per un breve tour di comizi in Sardegna e per una riunione del Comitato Centrale del Pci.
Altri tempi Cuperlo. Però, lì si parlava di politica, qui si parla tanto sui giornali ma è solo posizionamento, non confronto vero.
Proviamo un istante a riflettere anche sulla nozione di tempo. E sul fatto che non possiamo vivere in una eterna rappresentazione dell’istante dove se non ci sei nelle forme ritenute “giuste” finisci col non esistere.
Usiamo due parole, che nel Pci rappresentavano dei rischi da evitare: “minoritarismo” e “testimonianza”. Sono diventate la vostra carta di identità. E non mi convincerà che fosse giusto andare in piazza con Grillo.
Su quella piazza le ho appena detto quel che penso. Le faccio solo notare che il Pd, prima di Schlein, con Grillo ci ha fatto un governo una settimana dopo che i 5 Stelle ci urlavano “Bibbiano e pedofili”.
Peggio me sento… Glielo dico in romanesco.
Quanto a minoritarismo e testimonianza concordo con lei: poco avevano a che spartire con una forza che faceva dell’egemonia culturale una sfida permanente anche perché esclusa dal governo del Paese. Io non penso che il Pd possa ridursi a testimoniare buoni sentimenti. La nostra è una vocazione a governare, ma per undici degli ultimi sedici anni lo abbiamo fatto senza passare dalle urne e, per quanto giustificati dalle emergenze, quel prezzo lo abbiamo pagato per intero.
Cuperlo, voglio litigare. E, violando i canoni dell’intervista perfetta, le dico che siete inascoltabili. Ma il vostro problema è parlare a una nomenklatura schiantata o riprendere i voti, anche sfidando?
Sono io che non voglio litigare con lei, ma sa cos’è davvero inascoltabile nell’Italia di adesso?
Immagino che mi sciorinerà il peggio della destra…
Lo definisca come vuole, io sto alla realtà di questi mesi. Un ministro dell’Interno che definisce i naufraghi “carico residuale”. Un altro, dell’Istruzione e del Merito, a cui scappa detto che pure l’umiliazione del bullo è una pedagogia di recupero. Inascoltabile è definire le tasse che pagano un trapianto di rene anche a chi non ha ville in Costa Smeralda un “pizzo di Stato”. Questo è inascoltabile. Sentire il ministro Musumeci insultare gli alluvionati della Romagna spiegando che il governo non è un bancomat mentre quei sindaci da un mese gestiscono una tragedia senza precedenti.
Resta che non mi ha risposto.
Le rispondo che noi possiamo sbagliare, possiamo risultare poco efficaci nella comunicazione, ma rispetto a questa destra siamo un’altra cosa. E questo conta. Almeno per me conta più del resto.
Si rende conto che è tutto una barzelletta? Quello che sul palco parla di “passamontagna” è quello che ha fatto il governo con Salvini e con tutti. Ogni volta si dimentica ciò che è stato, le parole, gli atti. È il trionfo della disinvoltura, poi ti chiedi perché non si vota.
Questo è il ricatto del presentismo di cui parla Ilvo Diamanti. Vivere in un eterno presente senza radici e visione. Sembra la nostra legge del contrappasso rispetto a quello dantesco. Ieri e oggi sono giorni di maturità, se lo ricorda il X Canto dell’Inferno?
Gli eretici e Farinata?
Bravissimo. La pena a cui gli eretici sono condannati è di conoscere passato e futuro, ma ignorare il presente e da lì il dialogo tra Farinata e Dante sulle vicende fiorentine dell’epoca. Alla politica tocca una sorte opposta. Trascura il passato, ignora l’avvenire e si bea dell’oggi come se un altro tempo e un altro mondo non vi fossero.
Col senno di oggi: non è la stessa subalternità che, ai tempi del governo giallorosso, vi portò a votare il taglio dei parlamentari e alla rinuncia alla discontinuità sull’immigrazione?
Quelli furono errori. Tagliare un terzo della rappresentanza parlamentare per andare al governo con Di Maio è stata una scelta sbagliata che alcuni di noi contestarono e personalmente a quel referendum ho votato no. Sull’immigrazione riconosco che abbiamo compiuto un peccato di subalternità.
Ci si può alleare senza essere subalterni? Mi dica una sola proposta del Pd che Conte appoggia. Una sola.
Il salario minimo. Ma per fortuna non è l’unica.
Io sento critiche a tutti da parte vostra, tranne che ai Cinque Stelle. L’unica cosa che rimproverate loro è che non si alleano con voi, se poi si alleano gli date l’anima.
Siamo due forze diverse. Li rispetto anche se non ne ho condiviso la matrice, quel richiamo alla democrazia diretta dando per scontata la fine di quella rappresentativa. Riconosco che sul reddito di cittadinanza hanno realizzato qualcosa più di quanto fatto da noi in precedenza. Su altri temi, vedi l’Ucraina, le distanze sono profonde, ma vorrei capire come si pensa di sconfiggere la destra se si parte dalla rinuncia a gettare ponti tra le forze che a questa maggioranza e alle sue pulsioni autoritarie si oppongono. Se vuole, prima che una partita politica ne faccio una questione numerica. E i numeri, almeno nelle urne, qualcosa contano.
Ci sarebbe il piccolo problema che se foste al governo insieme non ci sarebbe politica estera. Ma che ne parliamo a fare.
No, è giusto parlarne perché senza una politica estera condivisa un governo banalmente non nasce. Però anche su questo vorrei che prima o poi entrassimo nel merito.
Appunto, il merito, si capisce che Elly Schlein la pensa come Conte, il cuore batte lì. Ma non può sennò si rompe il Pd.
Non la vedo così. Credo che in questa tragedia debba avere peso una distinzione che non è linguistica, ma politica e che separa il concetto di “spiegazione” da quello di “giustificazione”. Nel 1919 Keynes denunciava la sciagura delle riparazioni di guerra imposte alla Germania perché prevedeva avrebbero generato una reazione di riscatto e vendetta della nazione tedesca e aveva ragione perché furono all’origine della tragedia del nazismo, ma la miopia di Versailles non ha mai, per nessuna ragione, giustificato la follia hitleriana.
E quindi?
Quindi la premessa non può che essere un giudizio netto sulle responsabilità di Mosca e di quel regime nell’invasione di uno Stato sovrano. Lecito dire che prima c’erano stati la parabola della Crimea e il Donbass con le sue migliaia di vittime ignorate. E ancora, l’ipocrisia europea che ha chiuso gli occhi su tutto questo come su Anna Politkovskaja in cambio delle forniture di gas. Ma tutto questo “spiega”, contestualizza, non giustifica. La ragione del sostegno all’Ucraina vive dentro questa distinzione prima ancora dell’argomento sull’attacco ai valori dell’Occidente per come Putin li aveva declinati nella famosa intervista al Financial Times del luglio 2019.
Non pensa che il Pd trasferisca l’idea di un senso di colpa sulla guerra? Manca orgoglio di rivendicare che grazie al sostegno militare c’è un popolo che resiste, che lotta per la libertà.
È quanto le ho appena detto. Non è in discussione quel sostegno, ma le domande sono quando questa tragedia si potrà definire conclusa o, in alternativa, se questa è una guerra che si può vincere sul campo. E l’altra domanda è come si ferma una carneficina che dura da sedici mesi. Il punto non è negare ciò che abbiamo detto e fatto sinora perché penso, con tutti gli interrogativi umanamente legittimi, che aiutare un popolo aggredito a difendersi sia un dovere della comunità interazionale. Il punto è se possiamo noi – possono la sinistra di questo paese e la sinistra in Europa – subire il ricatto di quanti scomunicano chiunque invochi o insegua una tregua necessaria e una pace possibile.
Non mi nomini la famosa iniziativa diplomatica che sono tutte chiacchiere, al momento. La domanda è: questa trattativa deve iniziare con Putin rispedito a casa sua o con Putin in Ucraina?
Guardi, pochi giorni fa ho letto l’intervista al Segretario del Consiglio di sicurezza e difesa ucraino, uno degli uomini oggi alla guida di quel paese. Alla domanda sul costo eventuale del ricorso all’arma atomica lui ha replicato più o meno così, “La Bomba vada a farsi fottere. Di fronte a Satana noi non ci pieghiamo”. È propaganda? Sì, o almeno lo spero. Ma è anche una rimozione dello spartiacque storico del 6 agosto del 1945. Soprattutto la domanda è cosa vogliano dire queste parole nel lessico della democrazia europea di questo nostro tempo.
Me lo spieghi lei.
Io me lo chiedo. Lo sappiamo che le Russia questa guerra non può e non la deve vincere. Quindi, dal mio punto di vista, aiutare anche militarmente l’Ucraina a difendersi prima che necessario è un obbligo politico e morale. Ma cosa significa stare dalla parte giusta “fino alla fine”? Se siamo la sinistra e se pensiamo che le tragedie del ‘900 abbiano cambiato il corso della storia con un’etica che solo pazzi, autocrati o dittatori hanno rifiutato, compito nostro è ricollocare nella storia il concetto della pace e delle azioni utili a perseguirla.
Intanto i partiti socialisti europei si pongono il problema della sicurezza, in termini strategici. Come la Spd, non i nazisti, che ha aumentato le spese per la difesa. Qui nominare la parola armi sembra essere un tabù. Io ho la sensazione che, al di là degli slogan, in parecchi non sappiano di cosa si parli.
Vede, in un saggio recente, Pasquale Ferrara, ambasciatore e docente di diplomazia e negoziato alla Luiss, introduce la distinzione tra una “politica della pace” e la “pace come politica”. Lo spiega in questo modo. “La pace come politica significa che il valore centrale è sempre la pace, e attraverso di essa sono concepite tutte le politiche, mentre la politica della pace è un esercizio di risoluzione dei conflitti che si aggiunge ad altre priorità”. Fino a concludere che “La pace come politica non è un’opzione astrattamente etica; molto più concretamente è una necessità pratica se non vogliamo ridurre il mondo in cenere, sia per la guerra atomica, sia per il cambiamento climatico”. In tutto questo anche l’Unione Europea è al bivio tra valori fondanti, democrazia liberale e stato di diritto, e spinte a sovvertire non solo la maggioranza di centrosinistra, ma la natura dell’Europa.
Mi faccia dire però che anche sull’immigrazione siete fuori dal mondo: da Sanchez alla premier danese a Biden la linea dell’“accogliamoli tutti” non ce l’ha nessuno.
E infatti non ce l’abbiamo neppure noi. Ma ha ragione Roberto Saviano, il punto non è accoglierli tutti ma “salvarli tutti” perché se l’Europa non lo fa, e sinora non lo ha fatto, l’intera retorica europeista finisce sepolta. Una settimana fa nell’Egeo si è consumata l’ennesima tragedia con oltre seicento morti, tra quelli un centinaio di bambini. Cos’altro deve accadere per imporre all’Europa, comprese le nazioni di Visegrad, un cambio di mentalità?
Mi dica una cosa che avete fatto per mettere in difficoltà il governo. La verità è che si mettono in difficoltà da soli. Vanno sotto in commissione lavoro, non sanno che fare sul Mes. E non c’è alternativa.
Lo spettacolo che offrono è imbarazzante. Divisi su materie decisive a partire dalla governance del Pnrr. Cadono in commissione bilancio al Senato, si dividono sul Mes. È un misto di incompetenza, arroganza e occupazione sistematica del potere sino alla decisione di negare a Bonaccini il ruolo di commissario per l’alluvione in Romagna. Detto ciò l’opposizione è una traversata faticosa. Noi ci siamo messi in marcia. Però alla fine di questa nostra conversazione sa qual è la domanda che manca?
Me la dica.
Che cosa ha fatto questo governo in nove mesi per il Paese? E la risposta è “nulla”. Se è così tocca a noi farlo capire e scavare le fondamenta dell’alternativa.
E voi? Per non far sentire indisturbato il manovratore? Nulla lo stesso. Facciamo così e chiudiamo: mi dica solo quale è la soglia che rende accettabile il risultato alle Europee?
Impedire che il governo dell’Europa passi ai nazionalisti del Nord e del Sud del continente. Perché se dovesse accadere e se di lì a qualche mese Donald Trump dovesse fare di nuovo ingresso alla Casa Bianca noi vivremmo la regressione peggiore dell’Europa politica dopo il 1945. E questo per ragioni storiche, politiche e culturali non possiamo permetterlo.