Chiamiamolo fattore 5.
Cos’è lo spiega l’ultimo rapporto Oxfam uscito in coincidenza con l’avvio del Word Economic Forum di Davos.
Funziona così: dal 2020 i 5 uomini più ricchi del mondo hanno raddoppiato la propria fortuna mentre 5 miliardi di persone, le più povere sulla terra, hanno visto la loro condizione rimanere la stessa.
Vuol dire un incremento di oltre 52 per cento rispetto alla media del quadriennio precedente.
Vuol dire soprattutto compensi smisurati ai propri ricchissimi azionisti.
Spiega il rapporto, “per ogni 100 dollari di profitti generati da 96 tra i maggiori colossi globali, 82 sono fluiti agli azionisti sotto forma di dividendi o buyback azionari”.
In casa nostra, l’Italia intendo, alla fine del 2022 il patrimonio netto dell’uno per cento più ricco sommava di 84 volte quello del 20 per cento più povero della popolazione.
Con un’aggiunta, che la quota di ricchezza di quest’ultimo spicchio tra il 2021 e 2022 ha conosciuto un secco dimezzamento.
Parafrasando il capolavoro di Paolo Sorrentino, la petizione di Oxfam per introdurre un’imposta europea sui grandi patrimoni ha scelto giustamente come titolo “La grande ricchezza”.
Ma scorriamo un paio di altri dati.
Sette delle dieci società più grandi al mondo hanno un miliardario come amministratore delegato o azionista di riferimento.
Parliamo di corporation con un valore stimato di 10.200 miliardi di dollari.
Per capirci, una somma superiore al Pil di tutti i paesi dell’Africa e dell’America Latina.
Tradotto, un nucleo ristretto di paperoni sta seduto sopra una montagna di ricchezza mentre alcuni miliardi di esseri umani fanno i conti con epidemie, guerre, inflazione.
E naturalmente con la fame.
Che tutto questo sia all’origine di un’esplosiva e crescente disuguaglianza pare superfluo doverlo ripetere.
Ma cosa succede quando quella concentrazione sguaiata di ricchezza e potere finisce col condizionare le politiche pubbliche di intere nazioni e aree geografiche rinnovando condizioni di privilegio per ristrette minoranze a tutto svantaggio di un interesse collettivo e mettendo a rischio i pilastri stessi dei nostri sistemi democratici?
La questione di un giusto salario si affaccia anche su questo fronte.
Di 1.600 aziende tra le maggiori per dimensioni solamente lo 0,4 per cento è pubblicamente impegnato a garantire ai propri dipendenti un salario dignitoso sostenendone l’introduzione lungo le proprie catene di valori (dati della World Benchmarking Alliance).
Inutile stupirsi quando si scopre che le più penalizzate in questo caso sono le donne.
L’inflazione ha completato l’opera producendo nell’arco del biennio 2021-2022 una perdita di potere d’acquisto pari a quasi una mensilità di stipendio.
Come reagire?
Non servono miracoli o esercizi di magia, toccherebbe al potere (residuo?) di governi e parlamenti investire sulla riduzione delle disuguaglianze, su beni e servizi pubblici accessibili e di qualità, sulla dignità e riconoscimento del valore del lavoro, sulla leva fiscale combattendo paradisi, evasione e corruzione diffusa.
Si tratta di colpire regimi di monopolio, tutelare la concorrenza, tassare profitti aziendali enormi favorendo con leggi adeguate quegli obiettivi di sostenibilità sociale e ambientale che riempiono da anni documenti e retoriche di un’Europa assai propensa ai proclami e più reticente nelle pratiche.
Detto ciò, se la prossima campagna elettorale per il voto europeo del 9 giugno metterà al centro del campo progressista e della sinistra questi traguardi, sarà più semplice convincere un buon numero di elettori della bontà di una proposta alternativa all’impianto di una destra che al solo sentire evocare i concetti d progressività fiscale, lotta all’evasione e tassazione adeguata dei grandi patrimoni mette mano alla pistola.
Anche quando non è Capodanno!
Buona giornata e un abbraccio