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Gianni Cuperlo - Deputato XIX Legislatura - Camera dei Deputati - Gruppo PD

Intervista a Michele Ciliberto: “Cuperlo sa che i diritti civili sono essenziali, ma che fondamentali sono i diritti sociali”

"L’Europa è periferia, l’Occidente è altrove: siamo seduti su un vulcano e non lo capiscono. Lo schieramento riformatore ha consegnato il paese alla destra, un esempio di demenza politica"

I nodi da affrontare «Cuperlo sa che i diritti civili sono essenziali, ma che fondamentali sono i diritti sociali. Il nostro problema principale oggi sono le diseguaglianze, la perdila di centralità del lavoro, la crisi della scuola e dell’Università che non si risolve certo con l’apologia del merito»

Professor Ciliberto, cosa c’è di “nuovo” nel dibattito “costi­tuente” del Partito democratico?

Quello che si manifesta sa mol­to di vecchie ritualità che niente hanno a che vedere con l’invocato rinnovamento — rifondazione. Sì, è un vecchio rito ormai, che in al­tri momenti può essere stato utile per cercare di ristabilire rapporti che apparivano consunti fra governanti e governati. Un problema generale che riguardava la democrazia rappresen­tativa già allora in una crisi organica in Italia e in Europa, crisi da cui non si è ancora usciti e di cui è un frut­to anche la vittoria delle destre nel­le ultime elezioni. Per comprendere le ragioni primarie di questa vitto­ria occorre mettersi a questa altez­za. Nel Pd, tranne qualche eccezione, non si sono mai posti sul serio il pro­blema, se non appunto ricorrendo alle primarie, che ovviamente non erano e non sono in grado di conte­nere una crisi di così vasta portata. E questo dipende anche dalla mi­seria culturale del gruppo dirigente del Pd in questi anni. Mi è piaciuta la definizione che ne ha dato recen­temente Aldo Tortorella parlando di un personaggio notevole come Filip­po Maone: sono afflitti da un “narci­sismo penoso”, che ha contribuito, per la sua parte, a portarci alla disfat­ta; sono dirigenti che non hanno mai fatto i conti con la realtà. Una mise­ria culturale e quindi politica.

Certo questo non riguarda solo il Pd. È un fatto: i dirigenti dello schieramento riformatore italiano invece di allear­si hanno consegnato il paese alla de­stra. Un caso, come hanno osservato Cacciali e Ferrara che sarà studiato a scuola come esempio di demenza politica. Del resto, come dice il det­to, Dio fa impazzire chi vuol perde­re. E non hanno imparato niente: ora stanno consegnando il Lazio alla de­stra, non hanno imparato, per citare un altro detto, che perseverare è dia­bolico. Bisognerebbe prima o poi in­terrogarsi sui caratteri di questo ceto politico, oltre che narcisista, chiuso in dinamiche puramente burocra­tiche e di pura autoconservazione personale, di corrente e talvolta ad­dirittura familiare. Niente di male, se ricordassero che la politica di una parte, anche di un partito, è seria e positiva se fa coincidere il proprio in­teresse con quello del proprio paese. L’abc di una politica democratica… Sono d’accordo. Ma per farlo biso­gnerebbe sapere che siamo seduti su un vulcano, e non mi pare che lo capiscano. Se c’è una cosa che sor­prende nei politici con cui abbiamo a che fare è la serena incoscienza con cui fanno i loro giochi. L’Europa è or­mai periferia del mondo, l’Occidente è altrove, la composizione demogra­fica dei nostri paesi è profondamen­te mutata, il cristianesimo ha perso funzione e centralità con tutto quello che consiste dal punto di vista della formazione delle identità personali e collettive, sono cambiate le modalità della vita quotidiana, si sono trasfor­mati i rapporti tra la vita e la morte, la guerra è diventata il nostro orizzonte, si parla dell’uso di armi atomiche… Intendiamoci: un partito si muove sul piano politico, ma non si fa poli­tica senza riflettere su questi temi, e senza avere una visione di quello che l’Europa sarà da qui a dieci anni.

Sia­mo a un vero trapasso d’epoca, un mondo è finito, riferimenti secolari stanno sparendo nella vita familia­re e civile e nella società. Ci vogliono strumenti -e occhi- nuovi per capi­re questo, e comprendere anche che queste trasformazioni generano pau­re, angosce, di cui si nutre la destra, che su di essa ha costruito il suo suc­cesso. Ma, la storia insegna, le novi­tà possono essere metabolizzate con rivoluzioni passive, ma non si ferma­no specie quando, in molti casi, sono generate dalla disperazione di molti­tudini di uomini. Una nuova leader­ship dovrebbe capire che questi sono i problemi e tradurli, naturalmente, in iniziative politiche. Contenuti, progetti e leadership dovrebbero essere tutt’uno. Ma nella corsa alla segreteria del Pd non sembra essere così. Tra le candidature in campo qual è quel­la che la convìnce di più e perché? Personalmente avevo deciso di non andare alle primarie, con tut­to il rispetto che si deve a chi si è candidato. Ci andrò perché si è pre­sentato Gianni Cuperlo, e sarò dal­la sua parte perché è consapevole che i problemi sono questi, con una giunta sostanziale. Sa che i diritti ci­vili sono essenziali, ma che fonda­mentali sono i diritti sociali, perché il nostro problema principale so­no oggi le diseguaglianze, la perdita di centralità del lavoro, la crisi del­la scuola, della università, che non si risolve ovviamente con l’apologià del merito, e lo dice un professore della Scuola Normale che del merito ha fatto, ma in modo serio e intelli­gente, la sua bandiera, da più di due secoli. È un’altra delle “pappolate” che ci vengono propinate in questi giorni. E poi lo stimo perché non è afflitto da alcuna forma di “narcisi­smo penoso”. Anzi. Fare opposizione è una pratica di­ventata desueta per il Pd, alme­no nell’ultimo decennio e più. E ora Enrico Letta sogna un partito “pugnace”…

È difficile capire cosa abbia fatto il Pd in questi anni, salvo gestire il po­tere. E questa sia chiaro non è una critica. Un partito deve gestire pote­re, dipende da come lo fa. E qui bi­sognerebbe distinguere, senza fare di ogni erba un fascio. E anche sulla opposizione occorre chiarirsi. L’op­posizione di un partito che ambisce a governare deve situarsi sempre nell’orizzonte del potere, ed essere lontana da ogni forma di minorita- rismo, di ribellismo primitivo. Si go­verna anche essendo opposizione, come avviene in tutte le democra­zie rappresentative. Ma la loro crisi ha portato anche all’imbarbarimen- to o alla dissoluzione del concetto di opposizione. Dire che il Pd deve fare una opposizione pugnace – non me ne voglia Letta- è un’ovvietà. Natu­ralmente l’opposizione non si fa so­lo in Parlamento, ma anzitutto nella società, ricostituendo anche per questa via i rapporti usurati o rot­ti fra partito e società, fra cittadini e politica, cittadini e Pd. Situata nell’o­rizzonte del governo l’opposizione può essere una grandissima risorsa per un partito riformatore che vuole tornare alla guida del paese. La destra, è una narrazione ricor­rente, vince perché sa parlare al­la “pancia” del Paese. Non crede che questa sia una lettura sempli­cistica e fuorviante? Non è che la destra vince, perché ha costruito una sua egemonia culturale, iden­titaria, coprendo il vuoto lasciato dalla sinistra? È un discorso complesso, e qui non si può non citare due fenomeni che congiunti hanno portato la destra al potere. Il berlusconismo, in Italia è stato un fenomeno di prima grandez­za, anche se molti sembrano averlo dimenticato.

La vittoria della destra viene da molto lontano, ma questa che ha vinto è una destra erede del Movimento sociale italiano, ulterior­mente radicalizzatasi attraverso l’in­corporazione, ma in forme estreme • e trovando su questo consenso-, dei processi sociali e politici innescati in Italia da eventi di vasta portata come l’immigrazione-legale o clandestina- con tutto ciò che una novità di questa grandezza ha provocato a tutti i livelli. E questo a cominciare dai ceti più de­boli e in sofferenza anche per le mo­dificazioni e la crisi del tradizionale mercato del lavoro, con l’esplode­re di nuove emarginazioni, di nuove forme di solitudini, di violente for­me di risentimento, arrivate a volte a punte estreme. Se c’è una moder­nità di questa destra, è qui che essa si situa: nell’aver incorporato, in ter­mini estremistici, questi mutamen­ti. Il non aver partecipato al governo Draghi aveva, oltre a quelle tattiche, queste motivazioni strategiche. Ber­lusconi era ed è un’altra cosa. Oltre a cambiare in profondità il sistema politico italiano- ed è stato positivo, essendo il centro sempre un panta­no- si è mosso in un orizzonte di tipo genericamente “liberale”. La Lega è un’altra cosa ancora. Capire vuol di­re distinguere. I contrasti nell’allean­za sono reali, non di facciata, anche se sono stati intelligenti nel costituire un’alleanza elettorale.

C’è però un al­tro elemento da sottolineare per ca­pire dove stiamo, ed è il dominio in Italia, e non solo, della ideologia, di una nebbia ideologica che impedisce di vedere la realtà per quel che è. C’è un mondo reale e un mondo fittizio, noi viviamo in un mondo rovesciato nel quale diseguaglianze, sofferenze, sfruttamento perdono peso, si offu­scano, non si vedono. Se c’è una cosa che un partito riformatore dovrebbe fare è una critica dell’ideologia, rista­bilendo anzitutto il rapporto fra cose e parole, ridando significato alle pa­role. Si è perduto su questo terreno, con una conseguenza paradossale: oggi i reazionari si presentano come i veri innovatori, capaci di fare quel­lo che il popolo ha chiesto. Ma come diceva Guicciardini la folla è sem­pre in caccia di novità. E questo si­gnifica che la critica della ideologia • che consente di vedere la realtà per quella che è, rimettendola sui piedi – è oggi la cosa più importante per un partito riformatore che voglia rimet­tersi in cammino. Il “nuovo Pd” tra iniziazione e vecchie ritualità. Analizzato da un’autorità assoluta nel campo degli studi storico-filosofici: Mi­chele Ciliberto, professore emeri­to di Storia della filosofia moderna e contemporanea alla Scuola Nor­male Superiore di Pisa.