A dire il vero la notizia non è il successo della destra nelle elezioni in Molise. Così come non è stato il turno amministrativo ultimo a chiudere il cerchio sullo stato di salute delle opposizioni al governo Meloni. Detto ciò fa bene Luigi Zanda a spiegare perché al punto dove siamo la riflessione sul “prima” e sul “dopo” dovrebbe evitare rimozioni o silenzi.
Certo, l’aneddoto sul vecchio Pci capace di sezionare a lungo il voto di un grosso comune dell’hinterland napoletano più che un senso di rimpianto suscita un moto di tenerezza. Troppa la distanza per culture, strutture e costumi di vita interni a quei partiti. Resta che dalle urne, oltre alle percentuali, usciva un dovere di comprensione di fenomeni sociali e politici all’origine di una mobilità del consenso infinitamente più contenuta che negli anni prossimi a noi.
Dunque, capire o anche solo interpretare la banda ultra larga di oscillazione che singole forze e partiti registrano da un’elezione all’altra dovrebbe essere uno di quegli esercizi da fare almeno come manuale di autodifesa.
L’ANALISI
Prendiamo il Movimento 5 stelle. Come descritto da Daniela Preziosi in Molise sono passati dal 31 per cento delle regionali precedenti al 7 di domenica e lunedì.
A Castellamare di Stabia mezzo secolo fa i comunisti avrebbero convocato il congresso nazionale del partito. Invece la percezione è che dietro ogni inciampo, e relativa giustificazione, si alimenti per lo più l’ansia di rigenerare la speranza – il che è comprensibile – ma prescindendo da troppi dati del reale e questo rischia di aggravare il malanno anziché curarlo. In altre parole capire perché si conferma la giunta di Brescia o si strappa a sorpresa quella di Vicenza conta.
Come si deve scavare sui motivi di una sconfitta netta oggi a Campobasso e ieri nella Lombardia degli scandali sanitari, dove la destra governa senza interruzioni da quasi un trentennio. Vero che ogni contesto fa storia a sé, ma un paio di fili si possono tirare anche solo per attrezzare una strategia più credibile in vista del rinnovo di qualche migliaio di comuni e diverse regioni tra poco meno di un anno.
Perché molto si ricama, ed è comprensibile, sulle europee del giugno prossimo e su chi nel centrosinistra a trazione proporzionale uscirà dalle urne con la patente di capofila per una futura coalizione. Ma la sfida tra Pd e M5S non può far scomparire dai radar l’altra verità. Che saranno la scelta di sindaci e presidenti di regione a confermare o meno l’immagine di un’alternativa alla destra spendibile per attrazione e profilo, di lì alla scadenza della legislatura.
LA MAPPA DEL VOTO 2024
Parliamo di cinque regioni, Piemonte, Sardegna, Basilicata, Umbria e Abruzzo. Di oltre tremila comuni, quasi il quaranta per cento del totale. E tra questi Firenze, Bari, Perugia, Potenza, Campobasso. Impossibile scansare l’ostacolo, sarà l’esito di quella partita a sentenziare sulle chance di un cambio della maggioranza politica che guida oggi il paese.
Prevengo l’obiezione: solo un paio di anni fa il centrosinistra aveva infilato un filotto di successi, da Torino a Napoli passando per Milano, Bologna e Roma. Eppure quindici mesi dopo era stato bistrattato da una destra compattata e vincente.
Tutto vero, ma ragione in più per non riprodurre errori di tattica e strategia pagati a carissimo prezzo. E per convincersi una volta per tutte che il responso delle urne – si tratti di amministrative, politiche o europee – ha ragioni affondate nel tempo medio-lungo e non nell’ultimo mese di comizi. Allora direi che le questioni sono due. La prima si chiama “partito” ed è il grande rimosso di questi tre lustri di vita del Pd.
Ne abbiamo discusso a Bologna in una giornata aperta da Piero Ignazi e Antonio Floridia, e dove Elly Schlein ha mostrato di aver ben chiaro il bisogno di una forza non rinchiusa unicamente dentro le istituzioni. Insomma, un partito che torni a esser tale svestendo i panni da comitato elettorale permanente e involuto tra statuti, gazebo e congressi dove a circoli e iscritti – è accaduto da poco nel Lazio – viene negato persino lo spazio della discussione e del voto, perché tutto è rimesso alle primarie aperte.
La seconda questione è con quale alleanza politica, sociale e produttiva l’alternativa si presenterà alla sfida del 2027, o prima se quelli al governo si faranno del male.
LE FORZE IN CAMPO
Posta così, la prima osservazione riguarda i numeri. I simboli delle forze in campo e i numeri. E qui, per rapidità, conviene andare al sodo. Limitarsi a sommare la forza del Pd attuale con i 5 Stelle laddove si prestino e l’aggregazione di Verdi e Sinistra non basta. Non è questione di foto, consumazioni al bar o comizi congiunti.
È che ad oggi la sola addizione di forze che faticano a trasmettere una unità di intenti e obiettivi opera come zavorra per qualunque espansione del loro e nostro consenso. Non a caso dove si è riusciti a strappare i risultati migliori è stato per la forza delle giunte uscenti, per la maggiore affidabilità di candidate e candidati o per clamorosi errori dei nostri avversari.
Metto in fila: oltre alle grandi città, Monza, Lodi, da ultimo le citate Brescia e Vicenza. Risultati per certi versi straordinari che confermano, però, come sul piano amministrativo le sole formule nazionali non soddisfano il requisito minimo per tagliare la meta. Tanto più che in particolare il movimento di Conte continua a pagare un dazio altissimo per la fragilità del suo radicamento anche al netto di personalità che in assenza di una struttura alle spalle finiscono per assolvere a un ruolo di testimonianza.
E quindi? Quindi penso che i sentieri da imboccare siano due. Di metodo il primo, di strategia l’altro. Il metodo implica apprendere dagli errori e capitalizzare i meriti. Il centrosinistra ha strappato successi in luoghi sulla carta impossibili quando ha costruito una campagna lunga mesi, se non di più, basata su un programma condiviso da un tessuto civico – associazioni, forze sociali e produttive, cultura e movimenti – e quando ha scortato il tutto con una candidatura espressione di quella ricchezza.
SELLERS E PRODI
Bene, ma se è così, quanto ci serve ora è avviare subito la prossima campagna elettorale nel numero più alto di comuni e regioni dove si andrà a votare. Scegliendo di mettere il Pd a disposizione e al servizio di quel traguardo. Insomma, lavorare per tempo seguendo la metafora che Chance il giardiniere, l’immortale genio ingenuo di Peter Sellers, avrebbe sintetizzato nel rammentare quanto ogni ottimo raccolto sia sempre preceduto da una buona semina.
Quanto alla strategia, non è troppo tardi per fare nostro l’ammonimento di Romano Prodi a costruire l’alternativa dal basso, nelle case di qualche milione di italiani prima che nell’addizione di sigle che allo stato attuale poco li rappresentano. I temi ci sarebbero, e belli chiari. Quelli indicati da Elly Schlein a sostegno di una “estate militante”.
Lavoro buono, sanità pubblica, un tetto sulla testa, messa a terra del Pnrr e difesa dell’unità del paese contro i disegni della sua disgregazione. E poi diritti e dignità della persona. Rendere credibile un’alternativa passerà anche da qui.
Perché è giusto dire che un partito non è un movimento, ma allo stesso tempo vale sapere che senza un movimento di base che scuota qualche coscienza intorpidita e restituisca a parecchi il motivo di sperare i partiti da soli, dal più piccolo al più grande, corrono il rischio di una eco senza ritorno. Siccome siamo in tempo per tener conto di tutto questo, sarebbe saggio farlo prima di trovarci a rimpiangere non l’analisi della sconfitta, ma la ritrosia a combattere.