Oggi una nota (di relativo allarme) sulla riforma del Premierato.
Una decina di giorni fa mi aveva colpito un sondaggio di Ilvo Diamanti uscito su Repubblica.
Una maggioranza assoluta (il 58%) sosteneva la necessità di dotare il paese di una guida forte (da intendersi come una donna o un uomo forti).
Non una novità, in senso assoluto.
Ma era l’altra domanda a risultare più insidiosa: chiedeva se fosse possibile immaginare una democrazia senza partiti.
Anche in questo caso la maggioranza assoluta rispondeva di sì (con una percentuale un po’ inferiore all’altra, il 52% del campione generale), ma l’aspetto che più colpiva era un altro.
Quella maggioranza assoluta risultava più alta nelle tre fasce d’età che andavano dai 18 ai 54 anni, mentre una difesa del ruolo e della funzione dei partiti era la posizione maggioritaria solamente dai 55 anni in avanti.
La mia impressione è che questi dati incrociati ci dicono due cose.
La prima è che le generazioni, tutte, che si sono formate o sono venute dopo la crisi del sistema politico dei primi anni ‘90 non hanno più recuperato una percezione positiva della funzione democratica della rappresentanza (cioè di quella funzione dove il ruolo dei partiti risulta costituzionalmente garantito e culturalmente egemone).
La seconda, oggi per noi persino più importante della prima, è che se non intervengono fatti nuovi e significativi capaci di condizionare un sentimento prevalente nel paese noi questa volta corriamo il rischio serissimo di perdere il referendum.
Io penso che questa sia la ragione prima e fondamentale che deve spingerci a impostare la nostra opposizione alla proposta di premierato in una chiave che non ci schiacci sulla linea di un conservatorismo mai come adesso pericoloso perché poco efficace.
Quindi, sul piano del metodo, dico bene elaborare una serie di proposte capaci di delineare un progetto allo stesso tempo innovativo e alternativo alla riforma incostituzionale della destra.
Aggiungo che ho trovato lucida l’analisi di Michele Ainis contenuta nell’ultimo suo lavoro appena uscito (Capocrazia. Se il presidenzialismo ci manderà all’inferno – La nave di Teseo).
Nello specifico la tesi di un presidenzialismo sgangherato nel quale saremmo già pienamente immersi (lui lo battezza appunto capocrazia) e che trova nella vita dei partiti, in parte nel potere solitario di sindaci e governatori, ma soprattutto nel decisionismo di Palazzo Chigi con un abuso quotidiano di decreti e fiducie la forma della sua espressione.
Un’ultima nota.
Non mi convince la lettura della loro proposta come una distrazione di massa dai fallimenti dell’azione di governo.
Giorgia Meloni nel discorso della prima fiducia rivendicò quanto era scritto nel programma elettorale di Fratelli d’Italia (l’elezione diretta del presidente della Repubblica).
Continuo a credere che per loro questa riforma rappresenti il vero passaggio decisivo non solo di questa legislatura: accreditarsi come nuovi padri e madri di una costituzione rivista nel punto nodale della forma di governo e che archivia, questa volta definitivamente, la lunga stagione della discriminante antifascista.
Allora la domanda è quanto dobbiamo investire in termini polemici sullo scontro frontale rispetto a questo snodo?
Io penso che non possiamo ignorarlo perché è uno di quegli argomenti che se gestito con accortezza parla alla sensibilità di un pezzo importante del paese (non voglio dire un pezzo maggioritario, ma certamente un pezzo che nel momento del bisogno è disposto a uscire di casa e andare a votare contro una riforma che voglia aggredire alcuni dei pilastri costitutivi dello spirito costituente).
È chiaro che ci sono altri aspetti fondamentali a partire dal capitolo decisivo della legge elettorale (ogni sistema presidenziale che si accompagni al proporzionale alimenta una proliferazione dei partiti con la conseguenza di aumentare instabilità e conflitti, cioè esattamente l’opposto dei proposito annunciato).
Ma su questo e molto altro giocoforza bisognerà tornare.