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Gianni Cuperlo - Deputato XIX Legislatura - Camera dei Deputati - Gruppo PD

Una riflessione su Berlusconi: lettera a “La Stampa”

Gianni Cuperlo sulla memoria di Silvio Berlusconi

Caro direttore, a esequie e celebrazioni archiviate, abbassate le luci sul racconto sbianchettato di una biografia capace di miscelare sacro e profano, impegno pubblico e privatizzazione dello Stato, compresiva quest’ultima di leggi e regole, a rimanere impressa è soprattutto un’immagine: l’uomo Berlusconi nelle sue molteplici vite – imprenditore, tycoon di televisioni e calciatori, fondatore del primo prototipo di partito personale – dipinto come l’espressione più aderente al vero dell’arci italianità.

Secondo quella lettura nessuno al pari suo avrebbe posseduto volontà e talento in misura tali da incarnare l’anima ancestrale del Paese.

Nel linguaggio, nell’azione, nel rapportarsi al potere (prima) e nell’ esercitarlo in proprio (poi), nell’indossare i panni delle maschere italiche, le più diverse secondo la bisogna.

Non l’italiano medio, attenzione, perché in quell’ipotesi si sarebbe dovuta scomodare l’aurea mediocritas di Orazio con l’elevarsi della moderazione a condotta di vita.

No, l’arci italiano inteso nel significato opposto. L’esagerazione per diletto, la sfrontatezza nell’irridere le regole, una ricerca ossessiva di privilegi e supremazia con la ripulsa degli avversari da deturpare nell’immagine sino, nel caso in questione, all’ampiezza inedita del concetto di familismo trapiantato dalla sfera morale alla disinvoltura nel fare impresa e a una politica imbastardita da interessi privati in ostilità col resto.

Ora, sull’insieme di questi tratti si sono dipanati conflitti lunghi poco meno di un trentennio. Dunque parliamo di un tempo storico. Del resto, la santificazione, avvenuta con poche eccezioni ahimè, ha restituito la misura non già del lutto privato, ma del suo utilizzo sulla scena pubblica a cemento di una presunta e grandiosa “storia italiana“. Così almeno la narrazione e l’iconografia riuscite a imporsi.

E allora? Allora, dalla memoria riemerge un ricordo pertinente a modo suo. Vecchio di quasi quarant’anni, ma non per questo fuori sincrono col clima di ora.

Riguarda un altro funerale, storico per ragioni completamente diverse e rimasto impresso nel calendario civile di molti. Era il saluto al leader comunista più amato da elettori e militanti di quel partito oltre che rispettato da interlocutori e avversari.

Il 10 giugno del 1984, il giorno precedente la morte di Enrico Berlinguer, quando già le speranze si erano spente, la Repubblica di Eugenio Scalfari per tributare all’uomo e al politico il massimo omaggio titolò l’editoriale del direttore “Straniero in patria”.

Per restituire al segretario caduto sul campo il riconoscimento, all’epoca unanime, di una assoluta probità nello stile di vita e nell’azione politica la scelta era di straniarne la figura dai caratteri tipici dell’essere italiani. Uno straniero appunto.

Un capo politico così interamente perbene da non poter e dover somigliare non dico all’arci italiano, ma anche solo all’italiano tipico.

Perché rievocarlo? Per due ragioni almeno.

La prima, la più appariscente, sta tutta nella distanza abissale dei due racconti. Tanto intriso del senso comune che fa dell’Italia una patria di assoluta sregolatezza, per alcuni sintomo di genialità, per altri di miseria, l’agiografia del capo di Forza Italia, quanto estranea a quel racconto la parabola del capo comunista. Basterebbe a indurre più di una riflessione.

La seconda ragione, però, sembra essere più seria. Non riguarda quanti hanno condiviso nel tempo la scommessa politica di Silvio Berlusconi, la sua concezione dell’economia, dell’informazione, dell’interesse pubblico. In tanti lo hanno votato e buona parte della destra che regge le sorti del paese gli è debitrice per il solo fatto di trovarsi dove oggi sta.

No, la questione riguarda buona parte di coloro che Berlusconi lo hanno combattuto in vita e a viso aperto denunciando quanto ritenevano un vero e proprio scempio del diritto.

Quelli che hanno contestato leggi pensate e redatte nell’interesse personale e degli amici.

Quelli che hanno criticato aspramente un’omologazione del linguaggio e una perdita di prestigio delle istituzioni o l’immaginario spregiudicato del corpo femminile.

Non è discussione il carnet di traguardi imprenditoriali o sportivi che l’uomo ha inanellato lungo una carriera accidentata che lo ha visto più volte inciampare e cadere.

Il punto è che definire l’antiberlusconismo un errore madornale, e al fondo un peccato del quale pentirsi, più che una rimozione appare l’eterno tartufismo di doppie e triple versioni della realtà.

Con l’aggravante di vestire a tempo scaduto le ragioni degli altri. In un’assenza di orgoglio e anche obiettività sui limiti di chi ha combattuto quella deriva, ma che non può a sua volta sbianchettare la cronaca degli ultimi tre decenni per inseguire non si sa quale tipo di benemerenza.

Verrebbe da dire, ognuno si tenga la sua “italianità”.

Per molti quella vecchia formula dello “straniero in patria” altro non era, altro non può che continuare a essere, l’impegno e la speranza di un’Italia diversa e migliore.